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The paper provides novel theoretical and experimental perspectives on the functioning of linguistic vagueness as an implicit persuasive strategy. It presents an operative definition of pragmatically marked vagueness, referring to vague... more
The paper provides novel theoretical and experimental perspectives on the functioning of linguistic vagueness as an implicit persuasive strategy. It presents an operative definition of pragmatically marked vagueness, referring to vague expressions whose interpretation is not retrievable by recipients. The phenomenon is illustrated via numerous examples of its use in predominantly persuasive texts (i.e., advertising and political propaganda) in different languages. The psycholinguistic functioning of vague expressions is then illustrated by the results of a self-paced reading task experiment. Data showing shorter reading times associated with markedly vague expressions as compared to expressions that are either (a) lexically more precise or (b) made precise by the context suggest that the former are interpreted in a shallow way, without searching for and/or retrieving exact referents. These results support the validity of a differentiation between context-supported vs. non-supported vague expressions. Furthermore, validation of using marked vagueness as a persuasive implicit strategy which reduces epistemic vigilance is provided.
Una piazza, un castello, uno spettacolo teatrale, la presentazione di un libro, una mostra o una pinacoteca, la proiezione di un film o una conferenza, non si rovinano se ci va molta gente. Restano quello che sono. Se ci sono molte... more
Una piazza, un castello, uno spettacolo teatrale, la presentazione di un libro, una mostra o una pinacoteca, la proiezione di un film o una conferenza, non si rovinano se ci va molta gente. Restano quello che sono. Se ci sono molte persone può essere meno piacevole visitarla, ma il valore della cosa resta quello. Invece la pozza di un torrente con una piccola cascata, la cima di una montagna, una caletta fra gli scogli, una radura nel bosco, si rovinano se ci va molta gente. Non solo perché la molta gente tende a lasciare tracce e residui, e perché l'intenso calpestìo e il percorrimento in generale sono usuranti; ma proprio perché con la presenza di molta gente i luoghi selvaggi perdono ciò che li rende notevoli, cioè la loro natura selvaggia e non interferita dall'uomo. Non solo diventa meno piacevole visitarli, ma proprio il valore della cosa cessa di essere quello che era, perché la cosa cessa di essere quella che era.
Quindi non ci sono controindicazioni a invogliare le persone a frequentare luoghi e iniziative culturali; non si fa danno facilitando l'afflusso di pubblico ai prodotti e alle iniziative notevoli dell'uomo. E questo genere di esperienze educano chi le frequenta a comprendere meglio se stessi, gli altri, le cose.
Anche la natura selvaggia e incontaminata educa le persone a comprendere meglio se stesse e le cose, ma a una condizione: che sia conosciuta, a volte conquistata, nella sua condizione autentica, facendosi plasmare dal suo modo di essere. La natura ti educa quando la scopri attraverso un processo di ricerca, quando impari i modi per viverci dentro, quando affronti e sopporti le sue difficoltà. La natura non ti educa quando qualcuno suscita una tua blanda curiosità per essa attraverso avvisi pubblicitari, quando ti ci conduce sostituendoti nel sapere quello che occorre per affrontarla in modo sicuro, quando è accessoriata di indicazioni, suggerimenti, vanterie di chi l'ha modificata per far sì che diventi percorribile anche senza avere sviluppato nessuna sintonia o preparazione. Non ti educa insomma quando è una natura facilitata, trasformata in oggetto di consumo, non più selvaggia, non più incontaminata, cioè snaturata.
Si espongono i principali effetti della struttura informativa (categorie di presupposto-asserto e topic-focus) sull’attenzione investita nella processazione degli enunciati, e quindi le sue ricadute potenzialmente persuasive e... more
Si espongono i principali effetti della struttura informativa (categorie di presupposto-asserto e topic-focus) sull’attenzione investita nella processazione degli enunciati, e quindi le sue ricadute potenzialmente persuasive e manipolatorie. La ricerca sperimentale ha prodotto evidenze discordanti. Gli studi comportamentali (basati sui tempi di lettura e i movimenti oculari) hanno caratterizzato il topic e la presupposizione come “istruzioni” a dedicare minore attenzione a un contenuto. I successivi studi neurofisiologici (condotti più comunemente con la tecnica dell’elettroencefalografia) segnalano una tendenza diversa: quando il topic e la presupposizione sono associati a informazioni nuove, essi impongono maggiori costi di processazione, poiché rappresentano una strategia di confezionamento meno attesa, diversamente da quando vengono associati a informazioni date o già note al ricevente. Questi aspetti sono confermati da quattro studi elettrofisiologici condotti dagli autori. L’assenza di un raccordo coerente tra i due filoni di ricerca suggerisce che finora le indagini neurofisiologiche abbiano misurato i correlati del mismatch tra lo stato cognitivo dell’informazione in contesto e il suo packaging linguistico, e non i correlati dell’attenzione critica e della vigilanza epistemica esercitate dal ricevente durante l’elaborazione cognitiva del messaggio.
The paper provides evidence that linguistic strategies based on the implicit encoding of information are effective means of deceptive argumentation and manipulation, as they can ease the acceptance of doubtful arguments by distracting... more
The paper provides evidence that linguistic strategies based on the implicit encoding of information are effective means of deceptive argumentation and manipulation, as they can ease the acceptance of doubtful arguments by distracting addressees’ attention and by encouraging shallow processing of doubtful contents. The persuasive and manipulative functions of these rhetorical strategies are observed in commercial and political propaganda. Linguistic implicit strategies are divided into two main categories: the implicit encoding of content, mainly represented by implicatures and vague expressions, and the implicit encoding of responsibility, mainly represented by presuppositions and topics. The paper also suggests that the amount of persuasive implicitness contained in texts can be measured. For this purpose, a measuring model is proposed and applied to some Italian political speeches. The possible social usefulness of this approach is showed by sketching the operation of a website i...
The investigation of the complex relationship between implicitly conveyed meaning and context is central when it comes to defining, describing and understanding both implicit linguistic strategies and context. Despite being core notions... more
The investigation of the complex relationship between implicitly conveyed meaning and
context is central when it comes to defining, describing and understanding both implicit
linguistic strategies and context. Despite being core notions in pragmatics, due to the
complexity of the task, few fixed points have been reached so far in both directions. In this
editorial, we provide some brief insights on the most prominent issues in the study of both
notions and on their mutual influence. We then describe the multifarious picture of the
path taken up to date in the understanding of the dynamic contribution of implicit
meaning to the context, also discussing further possible theoretical and descriptive lines of
investigation. Finally, we introduce the six research papers which make up this virtual
special issue; we provide a short summary of their perspectives, methodologies and main
findings, whilst also clarifying their contribution to the topic of the special issue.
Ogni volta che decidiamo se comprare qualcosa o no, siamo di fronte a un bivio. Anzi, a un moltiplicarsi di strade che vanno dal comprare un prodotto, oppure un altro, o un altro ancora, al non comprare niente. Ogni volta che... more
Ogni volta che decidiamo se comprare qualcosa o no,
siamo di fronte a un bivio. Anzi, a un moltiplicarsi di
strade che vanno dal comprare un prodotto, oppure un
altro, o un altro ancora, al non comprare niente. Ogni
volta che esercitiamo il voto democratico scegliamo se
votare un partito o un altro, un candidato o un altro. Ad
ogni bivio di questo genere abbiamo l’impressione di
essere liberi di scegliere che cosa fare, ma questa libertà
è più limitata di quello che crediamo. Oltre ai ben
noti strumenti emotivi che la pubblicità e la propaganda
adottano per condizionarci, questo scopo viene ottenuto
anche attraverso precise strategie linguistiche,
di cui parleremo qui.
Se in pubblicità le immagini sono più importanti del
testo, ciò non dipende solo dal fatto che alla visione il
nostro cervello dedica più risorse che al linguaggio. È
dovuto anche al fatto che siamo meno portati a mettere
in discussione le immagini che le asserzioni. Se in una
pubblicità vediamo una famiglia felice mangiare certi
biscotti, nella nostra mente si instaura un’associazione
fra mangiare quei biscotti ed essere una famiglia felice.
Ma la stessa associazione, se fosse formulata mediante
un enunciato (Chi ha una famiglia felice mangia
biscotti del Mulino Bianco!), ci apparirebbe subito falsa
e ridicola.
Infatti siamo armati di quella che John Krebs e Richard
Dawkins (1984), studiando i sistemi di comunicazione
animale, hanno chiamato sales resistance, cioè “resistenza
all’acquisto” nei confronti di contenuti trasmessi
da individui della nostra specie. Il nostro sistema di comunicazione,
come quelli degli altri animali, è venuto
affinandosi per persuadere gli altri individui a fare quello
che vogliamo; e al tempo stesso abbiamo evoluto la
tendenza a resistere a questa manipolazione. Quando
cercano di convincerci, sottoponiamo i messaggi a un
vaglio critico e decidiamo se credere a quei contenuti
oppure no. La differenza fra immagini e linguaggio è
proprio che un enunciato linguistico, provenendo evidentemente
da un individuo umano, ci avverte che qualcuno
sta cercando di convincerci; le immagini, invece,
sembrano semplice realtà, e lo sono state per quasi tutto
il tempo in cui ci siamo evoluti, cosicché nei loro confronti
abbiamo sviluppato meno difese. Quindi non fanno
scattare la nostra spontanea reazione critica, anche se
spesso invece sono fabbricate proprio per manipolarci.
In sintesi, gli enunciati linguistici sono espliciti nel
proporre il proprio contenuto, mentre le immagini sono
implicite.
_____________________________
Impliciti linguistici nella pubblicità
_______
La pubblicità e la propaganda preferiscono affidare i
contenuti discutibili alle immagini, perché così è molto
meno probabile che ci si accorga che sono falsi. Ma in
certi casi il contenuto da trasmettere richiede proprio
una formulazione linguistica; e allora, il rischio che venga
smascherato e rigettato può essere ridotto presentandolo
sì linguisticamente, ma nella parte implicita dell’enunciato.
Ad esempio, una pubblicità Citroën insinua
che noi non stiamo guardando il mondo con i nostri occhi,
perché questi sono chiusi: Non guardare il mondo
con gli occhi degli altri. Apri i tuoi. Il verbo aprire presuppone
che qualcosa sia chiuso: dicendo “apri la finestra”
io fra l’altro informo il mio destinatario che in quel
momento la finestra è chiusa. Non gli dico esplicitamente
“la finestra adesso è chiusa”, ma glielo trasmetto in
maniera implicita. Non occorre dire: “La finestra adesso
è chiusa. Apri la finestra”, inducendo il destinatario a
fare separatamente attenzione su entrambe le cose. Basta
dire “Apri la finestra”, e l’altro si focalizzerà soprattutto
sulla nostra richiesta. L’informazione implicita
viene processata con minore attenzione, risparmiando
sforzo cognitivo. Fin qui tutto bene; ma un po’ meno
quando l’informazione che viene trasmessa implicitamente
non è pacifica e innocente, bensì discutibile, esagerata
o addirittura falsa. Ad esempio, se Citroën ci dicesse:
“Tu stai vivendo con gli occhi chiusi”, ci accorgeremmo
che questa metafora è un’esagerazione offensiva.
Quindi se non ci offendiamo, e la pubblicità funziona, è
perché questo ci viene comunicato in modo implicito,
cosicché gli dedichiamo meno attenzione critica; e in
qualche misura finiamo per accogliere quell’idea nel
mondo delle nostre credenze. Che la nostra vita tornerebbe
ad essere decente acquistando una Citroën ds4,
ci è comunicato di nuovo in maniera implicita. Nella
pubblicità questa frase non c’è. Citroën fa in modo che
siamo noi stessi a implicarlo, ponendo accanto al testo
l’immagine del prodotto. E poiché lo implichiamo noi,
non siamo portati a metterlo in discussione. È all’opera
il cosiddetto egocentric bias, cioè la tendenza a percepire
ciò che viene da noi come sicuro e affidabile (Mercier
2009, Reboul 2017). Siamo, cioè, degli “ottimisti cognitivi”:
diamo per scontato che i nostri processi spontanei
siano altamente affidabili, e che il loro risultato non necessiti
di essere controllato.
Quesito: Alcuni lettori ci chiedono se sia corretto adoperare attitudine come sinonimo di atteggiamento, uso che incontrano spesso in programmi televisivi. Altri, probabilmente anche in considerazione di tale fluttuazione di significato,... more
Quesito:

Alcuni lettori ci chiedono se sia corretto adoperare attitudine come sinonimo di atteggiamento, uso che incontrano spesso in programmi televisivi. Altri, probabilmente anche in considerazione di tale fluttuazione di significato, chiedono se l’inglese attitude sia da tradurre con attitudine o con atteggiamento.
Attitude: attitudine o atteggiamento?

Il sostantivo attitudine ha per lo più in italiano il senso di una dote o inclinazione innata, che facilita una pratica o un’attività. Si può avere attitudine per il canto, per la matematica, per gli sport di palla. Questo è coerente con l’origine della parola, che è dal tardo latino aptitudo, derivato di aptus, ‘adatto’, da cui anche l’aggettivo italiano atto, con lo stesso significato: atto al servizio militare. Chi ha attitudine è dunque adatto a fare una cosa. Si tratta di una condizione permanente o almeno durevole, ben radicata nella persona.

Diverso è dunque il significato di atteggiamento, che significa una posizione del corpo o un modo di porsi nei confronti di persone e cose, dunque il manifestarsi di opinioni, gesti o azioni che può essere anche momentaneo e transitorio, e che comunque pertiene più all’agire di qualcuno nelle situazioni, che non alle caratteristiche intrinseche della sua persona. Atteggiamento infatti ha origine nei termini latini actus e actum, che significano ‘atto, azione’, derivati di agere, ‘condurre, agire, fare’.

Tuttavia, da questa radice latina del ‘fare, agire’ è stato tratto in italiano (almeno a partire dal XVI secolo) anche un secondo termine attitudine, che aveva in origine il senso di ‘posizione, postura o atteggiamento del corpo’. Così lo adopera Leonardo da Vinci già prima del 1519, e in seguito molti altri. Ecco alcuni esempi:

    tenendo la spada in mano o altr’arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paia che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna. (B. Castiglione)

    aveva il ditto giove innella sua mano destra accomodato il suo fòlgore in attitudine di volerlo trarre. (B. Cellini)

    sani con feriti, moribondi con boccheggianti s’abbaruffano in ogni strana attitudine. (B. Davanzati)

Meno frequente dell’altro termine nell’uso durante tutta la storia dell’italiano, questo è di solito presente nei dizionari come attitudine2, mentre quello derivato da aptus con senso di ‘dote o inclinazione’ figura come attitudine1. Entrambe le parole sono state coniate come voci dotte, cioè non sono state direttamente tramandate dai parlanti modificando in modo inconscio le loro abitudini di pronuncia del latino. La perfetta convergenza fonetica dei due termini è peraltro del tutto regolare, perché in italiano si assimilano in -tt- sia il nesso latino -pt- che quello -ct-: optimum dà ottimo, e lacte dà latte.

Nel XIX secolo attitudine2 ha poi acquisito anche il senso traslato di modo di porsi non solo corporeo ma anche mentale o verbale, dunque un significato analogo a quello di atteggiamento: un’attitudine intesa come l’atteggiarsi nei confronti di qualcosa: porsi in un’attitudine di ascolto. Se ne vedano qui alcuni esempi letterari:

    il frate mise la mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli stava curvo dianzi, nell’attitudine d’un figliuolo. (A. Manzoni)

    poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore,... esclamò. (A. Manzoni)

    quello che più mi addolora nel momento presente non è tanto l’attitudine dell’autorità di fronte alle idee che ispirano il nostro movimento religioso, quanto la durezza dei suoi metodi. (A. Fogazzaro)

    io non potevo avere verso di lui altra attitudine che quella di un cane impaurito. (G. D’Annunzio)

    ella ha atteso nella stanza in quell’attitudine di fatalmente rassegnata. (A. Palazzeschi)

Questo significato traslato è – a seconda dei contesti e delle epoche – calco semantico sul francese attitude, che ha il senso dell’italiano atteggiamento, o sull’inglese attitude (Klajn 1972, p. 138), che ha lo stesso senso benché sia un esito successivo di aptitude, il quale a sua volta è dal francese aptitude, termini questi ultimi che in ambo le lingue continuano a significare ‘disposizione, inclinazione, talento’, cioè attitudine1. Dunque nell’accezione che i nostri lettori pongono al centro delle loro domande il termine è frutto di influsso francese o inglese a seconda dei casi, ma non recentissimo. Ad esempio è lecito supporre che Manzoni recepisca un prestito semantico dal francese. Inversamente, si può attribuire alla recente accresciuta familiarità dei parlanti italiani con l’inglese, e quindi in sostanza a un riproporsi del meccanismo del calco semantico basato su quella lingua, se negli ultimi anni è divenuto più frequente incontrare la parola italiana attitudine usata nel senso di ‘atteggiamento’.

Rientrano in questa recente vitalità del calco semantico dall’inglese i casi di linguaggio giornalistico a cui accennano i nostri lettori, e facilmente rintracciabili da chiunque. Ad esempio, una lettrice ha ascoltato questa frase in un programma televisivo:

    Nell’esibizione canora, il ragazzo aveva un’attitudine positiva;

e ci chiede conferma che sarebbe stato meglio dire “un atteggiamento positivo”. Usi simili si rinvengono del resto anche da parte di chi si rivolge all’Accademia chiedendo consigli su altre questioni:

    Ho vagamente idea che esista un termine appropriato per definire l’attitudine di chi scredita i tempi contemporanei a favore di quelli passati;

oppure:

    Sul mio luogo di lavoro un dirigente si rivolge ai quadri scrivendo delle lunghe lettere tutte in maiuscolo. Trovo questa attitudine una forma di grande scortesia.

Tirando le fila della situazione che abbiamo descritto, e venendo alla domanda dei nostri lettori su quali termini sia più giusto adoperare, si deve anzitutto dire che la minore frequenza di attitudine2 rispetto ad atteggiamento o ad attitudine1 non deve far pensare a un termine poco corretto, o confinato in forme meno sorvegliate della lingua. Esso anzi percorre la storia della lingua colta, come mostrano fra i molti altri gli esempi letterari che abbiamo dato sopra. Entrambi i sensi sono dunque disponibili e associati alla parola italiana attitudine. Il parlante può scegliere di usarla anche nel secondo significato, oppure di ricorrere per quel senso al più usuale e collaudato atteggiamento.

La scelta, però, come sempre in materia di lingua, determina effetti diversi. Ad esempio, nessuno può dire se sia più giusto usare pantaloni o brache per designare quell’indumento, ma è chiaro che il risultato è differente. Possiamo dunque cercare di caratterizzare i diversi effetti che si producono usando attitudine oppure atteggiamento, quando si voglia esprimere il senso di ‘modo di porsi e di agire verso qualcosa o qualcuno’. Fino a qualche anno fa, usare attitudine con questo senso era una scelta che produceva un effetto arcaizzante e quasi solenne, per via della relativa rarità di tale accezione e del suo essere stata prevalentemente adottata in contesti letterari o comunque formali. Oggi la situazione si è quasi capovolta, perché questo uso di attitudine richiama immediatamente la contiguità all’inglese, quindi esprime piuttosto, da parte del parlante, una matrice culturale e un atteggiamento linguistico (o se si preferisce un’attitudine!) moderni o disinvolti. Come moderno, anche se forse non disinvolto, doveva apparire il calco semantico dal francese attitude sotto la penna del Manzoni.

Nota bibliografica:

    Klajn 1972 = Ivan Klajn, Influssi inglesi nella lingua italiana, Firenze, Olschky, 1972.
Sulla base di una consistente letteratura che avvalora il ruolo della presupposi¬zione come riduttore dell’attenzione critica, si è avanzata l’ipotesi che presupposi¬zioni strutturalmente complesse (nella nostra ipotesi, i sintagmi... more
Sulla base di una consistente letteratura che avvalora il ruolo della presupposi¬zione come riduttore dell’attenzione critica, si è avanzata l’ipotesi che presupposi¬zioni strutturalmente complesse (nella nostra ipotesi, i sintagmi nominali) attivino maggiormente la vigilanza epistemica, mentre presupposizioni strutturalmente semplici (i composti) inducano una processazione più sommaria e sfruttino la va¬ghezza sintattica dei legami tra i costituenti, prestandosi maggiormente a uno sfrut¬tamento persuasivo. Queste ipotesi sono state supportate da esempi dal linguaggio pubblicitario e politico, che ne hanno messo in luce il valore contrastivo e inter¬linguistico. Sulla base di questi dati preliminari, ricerche future permetteranno di esplorare la dimensione testuale di composti e altre strutture “ridotte” veicolanti contenuti tendenziosi, nonché di verificarne la ricezione e l’efficacia persuasiva rispetto a strutture più complesse.

  Dal punto di vista contrastivo, si è mostrato che le differenze morfosintattiche fra lingue possono avre una ricaduta di natura pragmatica, determinando diverse capacità di adottare strategie manipolatorie. L’esempio che si è fatto è quello del tedesco, che può costruire liberamente composti occasionali. Questi si prestano a “impacchettare” linguisticamente come sintagma nominale definito, quindi prag¬maticamente come informazione presupposta, contenuti che in altre lingue richie-derebbero il ricorso a costruzioni più predicative e meno capaci di presupporre. Inoltre, i composti occasionali consentono di veicolare contenuti più vaghi rispetto ai composti lessicalizzati (cui di norma si limitano lingue diverse dal tedesco come l’italiano e il francese), perché l’interpretazione di quale sia la relazione semantica fra le parti del composto può restare vaga o ambigua; e anche questo può essere sfruttato per trasmettere in maniera inavvertita contenuti discutibili.

    Resta da accertare (con ricerche su corpora e metodi statistici) se il tedesco (come altre lingue dotate degli stessi strumenti morfosintattici), oltre a disporre di questo strumento ne faccia un uso quantitativamente tale da poterla definire come una lingua più manipolatoria non solo potenzialmente, ma anche quanto ai suoi usi effettivi. Una risposta almeno parzialmente affermativa a questa doman¬da viene dagli esempi che abbiamo mostrato di discorsi politici, dove in contesti pragmaticamente simili l’espressione di concetti discutibili del tutto paragonabili è avvenuta da parte di parlanti tedeschi sfruttando composti occasionali che rendo¬no il loro discorso più ricco di presupposizione e vaghezza manipolatorie rispetto a quello dei loro omologhi francesi e italiani.
Prologo 1994. Sono così nuovo del Giappone che uscendo indosso il giubbotto da pesca, con le dodici tasche attrezzate di tutto il necessario per affrontare ambienti ostili. Perfino la bussola, poi racconterò perché. Sono ancora... more
Prologo

1994. Sono così nuovo del Giappone che uscendo indosso il giubbotto da pesca, con le dodici tasche attrezzate di tutto il necessario per affrontare ambienti ostili. Perfino la bussola, poi racconterò perché. Sono ancora jet-lagged. Lascio per la prima volta la residenza dell'università dove sono arrivato ieri sera, fra quelle stradine di Tokyo che oggi tutti conoscono dai film, ma che allora nessuno in Italia aveva mai visto. Stradine che trasudano normalità: ne immagini infinite uguali. Lo so per certo, che ce ne sono infinite, perché in quartieri come questi vivono 30 milioni di persone solo nell'area metropolitana di Tokyo. Ma per me è tutto strano. La prevalenza delle case prefabbricate, i muri con un intonaco mediamente più rugoso del nostro, gli infissi e le ringhiere in alluminio talvolta brunito, i tetti di ceramica blu o verde che finiscono con la curva all'insu come in un tempio, eleganti da morire; i vasetti vicino agli usci con fiori che sono come dei cavoli viola a me ignoti, i pali della luce con i grovigli di fili inspiegabilmente da terzo mondo, i cortiletti alberati poco più grandi di un divano, con gli stendini a ragno di mollette, che in Italia arriveranno dieci anni dopo; i cartelli stradali e anche l'asfalto degli incroci con l'ideogramma  di tomare, 'fermarsi':  l'ho controllato sul dizionarietto Vallardi che ho nella tasca bassa-esterna-destra del gilet da pesca color verde marcio.
Adesso, mentre scrivo questa cosa, provo una nostalgia lancinante per quel me ignaro. L'ignoranza è un bene prezioso, anche se non lo sapevo ancora. Mentre percorrevo le stradine di un quartiere dormitorio, mi faceva sentire in un'avventura.
Scendo la via pieno di vaghe aspettative per i mesi che ho davanti, e arrivo al supermercato consigliato dalle studentesse coreane nella cucina comune della residenza. È collocato in alto rispetto alla strada, in cima a una ventina di gradini a semicerchi sempre più stretti fino alla porta di ingresso, che è aperta: dietro risplendono nella luce galvanizzante dei neon i primi scaffali con le merci. Ai lati della porta stanno due ragazze in uniforme dell'azienda. Salgo i gradini e imbocco il vitreo vano di entrata. Le due fanciulle si chiudono a scatto davanti a me come una forbice. Ma sono tutte inchini, sorrisi e un parlare fitto fitto dal tono cortesissimamente dispiaciuto: non capisco le parole, soltanto che non posso entrare. Sarà perché sono occidentale, o perché indosso un giubbotto da pesca, contrario al dress code degli spacci alimentari? O forse il supermercato è una specie di cooperativa riservata ai soci, e devo andare chissà dove a fare una tessera? Sconfitto mi giro, scendo tre gradini, e dietro di me esplodono le voci delle due fanciulle: Irasshaimase! Irasshaimase! Irasshaimase! Giorni dopo imparerò che significa 'vogliate entrare', ed è la formula standard di invito in qualsiasi luogo. Mi giro di nuovo. Le ragazze nei loro tailleurini blu sorridono più di prima, gridano Irasshaimase! rivolte non solo a me ma al mondo intero, e con ampi gesti protendono le braccia in una specie di accompagnamento all'interno. Risalgo i tre gradini. Entro. Sono le 09:00:04. Ah, ecco: il supermercato apriva alle 09:00:00.

Non posso emettere verità sul Giappone perché continuo a non capirlo. Ci ho vissuto un anno e mezzo distribuito su sette soggiorni di qualche mese ciascuno distanti quattro o cinque anni l'uno dall'altro, e continuo a non essere sicuro di avere capito. Né le cose grandi, né i dettagli. I giapponesi, vivendo vite almeno dieci volte più rispettose delle regole, sono più felici o più infelici di noi? Ma in realtà non sono sicuro neanche della premessa: sarà vero che obbediscono alle regole più di noi, oppure obbediscono solo alla mega-regola di far finta di obbedire? Più avanti vedremo le prove che ho fatto con l'attraversamento della strada quando è rosso, e con i cestini delle biciclette... senza trovare la risposta finale a questa domanda.
E perché anche gli involucri di plastica più irrilevanti, tipo quelli in cui è avvolto un set di gomme da cancellare o una merendina, e perfino l'ultimo strato, quello ormai solo igienico, sono così indistruttibili che con le mani o con i denti non si riesce a strapparli, e dopo averli aperti con le forbici possono diventare il sacchetto in cui sarà custodito il tuo coltello militare nella tasca dello zaino da montagna per quindici anni?
Per noi europei il Giappone è il paese più straniero che ci sia. Sono asiatici, e per di più isolani d'Asia. Distano dalla "media orientale", che è già lontanissima da noi, più di quanto gli inglesi siano sui generis rispetto alla media europea. Anche per questo, cercando di capire la loro civiltà, le ipotesi che ci vengono in mente sono spesso inservibili. La spiegazione, che dovrebbe farci capire, sta sempre in qualcosa che a noi non viene in mente, e che quando ce la spiegano si rivela ancora più difficile da capire della cosa che doveva spiegare.

Io conosco soprattutto il Giappone moderno e urbano, e in particolare l'immensa Tokyo, dove è compendiato un po' tutto il mondo; come l'umanità è riassunta a New York, lo è anche a Tokyo, ma con una prevalenza dell'Asia invece che dell'Occidente. E poi conosco la natura selvaggia. Per il Giappone rurale e quello tradizionale, con la sua semplicità, la sua eleganza umbratile e il suo garbo leggero, consiglio di leggere almeno Memorie  di una Geisha di Arthur Golden e Libro d’Ombra di Jun’ichirō Tanizaki. Posso dunque raccontare il mio Giappone, ma non posso spiegarlo. Al massimo posso provare a spiegare qualche dettaglio qua e là, qualche meccanismo minore. Né  posso mettere in ordine le cose veramente importanti da dire sul Giappone. Per questo, ci sono libri di persone troppo più competenti di me. Quello che posso fare, però, è raccontare l'esperienza che potrebbe essere di molti lettori, con il Giappone. L'esperienza di un italiano abbastanza intelligente e molto ignorante che cerca di capire e spesso si perde, praticamente mai si spaventa e quasi sempre si diverte, in questo paese così mite per il visitatore. Posso raccontarvi alcune cose che vi cadrebbero sotto gli occhi se cominciaste a frequentare il Giappone e i giapponesi. Del resto, ormai è un luogo comune che "non si può comprendere il Giappone". E allora, il meglio che possiamo fare è descrivere come si forma questa evidenza di non poter capire.

Racconterò esperienze che possono essere spiegate in diversi modi, o non spiegate per niente. Esperienze che io ho fatte senza trovarne la spiegazione, e che proprio per questo sono state, per quanto a volte minime, indimenticabili. Ho continuato a domandarmi per anni che cosa ci fosse sotto quei fatti: nella mente delle persone con cui avevo trattato, degli artigiani che avevano prodotto gli oggetti, dei dirigenti che avevano promulgato una regola.
In qualche caso, dopo anni mi è sembrato di aver capito. Mi è stato spiegato, oppure ho collegato eventi diversi elaborando un principio comune. E l'esperienza fatta non è diventata più bella. Spesso è solo scesa dalla sfera delle cose misteriose a quella delle cose comuni. Quindi delle storie che racconterò in questo libro non darò molto spesso le spiegazioni. Non priverò i lettori di ciò che le ha rese notevoli per me: la possibilità di cercare una propria spiegazione, o di non cercarla affatto e godersi semplicemente la sua assenza. 

Il libro contiene un glossarietto dove si spiegano i termini giapponesi.
Sarebbe bello che il Piano Borghi servisse a far stare meglio gli abitanti dei luoghi oggi sempre più disabitati, senza trasformarli in parchi-gioco per turisti. Ma la quantità dei soldi, le imprese già annunciate e l'invariabile... more
Sarebbe bello che il Piano Borghi servisse a far stare meglio gli abitanti dei luoghi oggi sempre più disabitati, senza trasformarli in parchi-gioco per turisti. Ma la quantità dei soldi, le imprese già annunciate e l'invariabile esperienza del passato obbligano ad essere pessimisti.

https://micromegaedizioni.net/2023/02/17/piano-borghi-pnrr-caramelle-per-turisti/
Il contributo presenta il corpus multimodale di discorsi politici italiani IMPAQTS e lo schema di annotazione pragmatica ad esso applicato. Il corpus è costruito per essere rappresentativo del linguaggio politico della Repubblica... more
Il contributo presenta il corpus multimodale di discorsi politici italiani IMPAQTS e lo schema di annotazione pragmatica ad esso applicato. Il corpus è costruito per essere rappresentativo del linguaggio politico della Repubblica italiana: nel contributo se ne descrivono i criteri di bilanciamento e i metadati. Il corpus è inoltre annotato per contenuti discutibili veicolati implicitamente. Dello schema di annotazione pragmatica si illustrano i presupposti teorici e i correlati applicativi. Infine, si forniscono alcune indicazioni qualitative e quantitative emerse dall'analisi di una prima tranche di 477 discorsi annotati.
Available here: https://id.accademiadellacrusca.org/articoli/arbitrario/22912 Alcuni lettori ci chiedono che differenze di significato ci siano fra l’aggettivo arbitrario e termini come abusivo e indebito; vorrebbero anche sapere se... more
Available here:

https://id.accademiadellacrusca.org/articoli/arbitrario/22912

Alcuni lettori ci chiedono che differenze di significato ci siano fra l’aggettivo arbitrario e termini come abusivo e indebito; vorrebbero anche sapere se arbitrario sia sempre connotato negativamente. Più in particolare, una domanda riguarda il senso di arbitrario in linguistica, e come si spieghi la sua sinonimia con convenzionale in questa disciplina.
Imbattendosi nell’espressione pattern of behavior, uno dei nostri lettori ha trovato che la traduzione con modello di comportamento ne alterasse il senso. Un altro si chiede come tradurre pattern recognition, oppure il pattern di un... more
Imbattendosi nell’espressione pattern of behavior, uno dei nostri lettori ha trovato che la traduzione con modello di comportamento ne alterasse il senso. Un altro si chiede come tradurre pattern recognition, oppure il pattern di un leopardo, riferito alle macchie sulla sua pelliccia. Osserviamo preliminarmente che quando, pur di fronte a degli esempi concreti e molto specifici, non si è convinti di come tradurre una parola di origine straniera, questo può essere il segno che una parola italiana del tutto adeguata non è immediatamente disponibile.

Ciò detto, il caso di pattern non è dei più difficili, perché il termine inglese ha degli equivalenti italiani che, ciascuno per una parte, coprono i suoi ambiti d’uso. A seconda dei contesti, pattern significa ‘schema’, ‘modello’, ‘configurazione’, o anche ‘struttura’, ‘disegno’, ‘motivo’, e quindi può essere tradotto con questi termini. Chiaramente ciascuno di essi risulterà inadeguato se lo si userà nel contesto dove sarebbe più opportuno un altro. Ma tutti derivano per contiguità dal significato originario, in un modo che è reso chiaro dalla storia della parola.

Il punto di partenza è il latino patronus (derivato di pater ‘padre’), che significa ‘patrono’, cioè la persona principale da cui altre (anche molte) dipendono in quanto servi della sua casa, protetti, o anche patrocinati in azioni legali. In francese antico il termine patron ha aggiunto il valore di ‘modello da cui si realizzano molti esemplari’, ad esempio riferito ai profili di carta usati in sartoria. Questo è avvenuto per uno slittamento metaforico che mantiene l’idea astratta di un individuo principale da cui ne dipendono molti ad esso affini, e la trasferisce in un’altra sfera di realtà. Si può notare che tale processo semantico, per cui dalla radice che significa ‘padre’ si giunge al concetto di ‘oggetto partendo dal quale se ne generano altri simili’, ha un suo parallelo quasi perfetto nel destino della parola matrice, che dal senso di generare biologicamente (latino matrix ‘utero’, ‘madre’) giunge a quello di modello, stampo a partire da cui, ad esempio in tipografia, si riproducono le copie.

Entrato in inglese insieme con moltissime altre parole dell’antico francese, partendo dal significato di ‘forma, modello, schema da cui si generano copie’, patron ha derivato in quella lingua l’ulteriore e più generale senso di ‘modello, schema, configurazione che presiede al realizzarsi di una realtà’, tipicamente se ripetitiva. Ecco dunque affiorare “pattern” nelle decorazioni architettoniche, nelle stoffe, nelle livree degli animali, ma anche nei comportamenti, nei fenomeni storici, sociali e psicologici, e insomma in tutto ciò che sembra adeguarsi a un motivo ricorrente, a una struttura regolare, a uno schema che ne descriva il verificarsi.

Rispetto a patron, pattern è stato a lungo una mera variante grafica, cioè le due grafie venivano adoperate senza distinzione di significato. Solo nel XVIII secolo esse si sono separate, e mentre patron ha conservato il senso specifico di modello da sartoria o simile, pattern ha assunto il senso generale, e per conseguenza tutti i sensi più specifici di altri ambiti. Dunque, in italiano come in inglese, pattern a seconda dei contesti può assumere tutti i valori che abbiamo citati. Ad esempio, il pattern per fare un vestito è un modello, cioè il disegno che si segue per realizzarlo; ma un pattern di comportamento può anche essere solo lo schema che sembra descrivere quel modo di agire, la configurazione che possiamo osservare in esso, senza che si tratti sempre di un modello prescrittivo da seguire: è probabilmente per il senso più prescrittivo dell’espressione italiana modello di comportamento, che il lettore citato trovava in essa qualcosa di diverso da ciò che intendeva lui, almeno in quel caso, per pattern of behavior. La pattern recognition, di cui sono sempre più capaci molti artefatti di intelligenza artificiale, è la capacità di riconoscere le configurazioni della realtà, cioè i modi in cui essa è organizzata; specie se si tratta di schemi regolari o ripetuti. Ad esempio, in anatomia patologica il riconoscimento automatico di tessuti malati; nel trattamento computazionale del linguaggio, il riconoscimento delle parole nel flusso del parlato. In un programma di grafica, si potrà trattare del riconoscimento di figure umane in mezzo all’immagine di un paesaggio, che permette di scontornarle automaticamente. Invece il pattern della pelliccia di un leopardo è il particolare modello, o tipo, presente in quell’esemplare, nel senso dello schema o motivo seguito dalle sue macchie.

Ciascuna delle parole italiane che abbiamo adoperate per esemplificare le traduzioni di pattern ha un significato parziale, oppure qualcosa che ne rende difficile l’uso generalizzato: modello, come abbiamo visto, può introdurre un elemento direttivo o prescrittivo; disegno e motivo sono limitati al campo della percezione, visiva o uditiva; schema (come struttura) ha senso più astratto e generale, ma al tempo stesso tende a evocare una precisione intenzionale o l’appartenenza ad un ambito tecnico; configurazione è il termine più generico e quindi il più simile nel significato a pattern, ma è parola dotta, e pure lunga, il che non la rende sempre appropriata o bene accetta.

Pattern, sia in inglese sia nell’identico valore che ha assunto come prestito in italiano, è appunto più vago di ciascuno di questi termini. Grazie al suo avere senso più generale torna utile spesso e si sta affermando nell’uso, perché risparmia lo sforzo di scegliere un termine più perspicuo. Al tempo stesso, il rischio che il suo riferimento resti vago o ambiguo è limitato, perché il contesto in cui viene usato ne chiarisce il senso: se si tratta di pattern recognition sono in gioco le configurazioni che distinguono o identificano una porzione di realtà; e se si sta parlando della pelliccia di un leopardo non viene in mente che pattern significhi un modello da seguire, bensì piuttosto il ripetersi di un certo tipo di macchie sul pelo dell’animale. Ma qualche volta l’ambiguità può sorgere. Come ha dovuto constatare il nostro lettore, un pattern di comportamento può essere sia uno schema osservabile descrittivamente a posteriori, sia un modello prescrittivo a priori che viene suggerito o imposto di seguire.
Diversi lettori chiedono se e come si debba tradurre la parola inglese governance in ambito politico e in contesti aziendali, quale sia il genere da attribuirle in italiano e se sia lecito usare questa o altre parole inglesi nel testo di... more
Diversi lettori chiedono se e come si debba tradurre la parola inglese governance in ambito politico e in contesti aziendali, quale sia il genere da attribuirle in italiano e se sia lecito usare questa o altre parole inglesi nel testo di una legge.
This Article Collection gathers eight contributions on the persuasive and manipulative power of linguistic implicit communication. The phenomenon is dealt with from both theoretical and empirical perspectives, with articles elucidating... more
This Article Collection gathers eight contributions on the persuasive and manipulative power of linguistic implicit communication. The phenomenon is dealt with from both theoretical and empirical perspectives, with articles elucidating diversities between different implicit strategies in terms of discourse functions and cognitive processing, and others undertaking corpus-based research on the manipulative impact of implicit communication in various types of persuasive texts. The collection brings together up-to-date papers which, emphasizing different standpoints and frameworks, all contribute to move forward what the scientific community knows about several aspects of the working of persuasive implicit strategies.
Starting from the assumption that implicit strategies like presuppositions and implicatures can be used to reduce the tendency to critical reaction by addressees of linguistic utterances, which qualifies such strategies as useful... more
Starting from the assumption that implicit strategies like presuppositions and implicatures can be used to reduce the tendency to critical reaction by addressees of linguistic utterances, which qualifies such strategies as useful persuasive devices, the paper also recalls that for this reason they are a typical ingredient of advertisement and propaganda (Section 1). Reduced epistemic vigilance effected by implicit linguistic packaging is especially useful to smuggle questionable contents into the target’s minds. Specific implicit strategies can be specialized for specific pragmatic moves, such as conveying opinions, self-praise or the attack of others (Section 2). This includes any questionable selling content and any doubtful argument that, if believed, may give an advantage against a dialectic opponent. In particular, in public debates one does not aim at convincing the opponent, rather at shaping the beliefs of the audience at home. The paper shows (Section 3) how presuppositions and implicatures are used in Italian public (television) debates with exactly this argumentative function. In such contexts the pattern holds even more importantly for face-threatening contents, whose being conveyed explicitly would expose the source to more probable and stronger blame on the part of the public, while implicitness (and more specifically implicatures) can help speakers to convey to the public the opponent-discrediting content of a face-threatening attack, still not counting evidently as offenders.
Keywords: face-threatening acts; implicatures; implicit persuasion; presuppositions; public argumentation
The paper suggests that there is no contradiction in cleft sentences focalizing information which was already introduced by the preceding context, because being already active in discourse (i.e., Given) is not the same as being... more
The paper suggests that there is no contradiction in cleft sentences focalizing information which was already introduced by the preceding context, because being already active in discourse (i.e., Given) is not the same as being linguistically encoded as a Topic, and Given information can be focalized in discourse. Clefts should be explained precisely as constructions devoted mainly to focalizing already active information. A side-effect of the analysis is to assess that the role of syntax in expressing Information Structure is a secondary one, because syntactic triggers of Information Structure only work when accompanied by prosodic triggers, whereas prosodic means can work alone.
Quesito: Diversi lettori chiedono quale sia il modo migliore per tradurre l’inglese accountability, dato che la nostra lingua non sembra avere una parola davvero equivalente. Alcuni si stupiscono che la parola esista in inglese e non in... more
Quesito:
Diversi lettori chiedono quale sia il modo migliore per tradurre l’inglese accountability, dato che la nostra lingua non sembra avere una parola davvero equivalente. Alcuni si stupiscono che la parola esista in inglese e non in italiano, visto che la sua origine è latina.


Come possiamo tradurre accountability?
È vero che il termine inglese accountability ha origine latina: la parola è entrata a far parte del lessico inglese attraverso l’antico francese. La base originaria è un latino tardo ad + computare, prefissato dello stesso verbo che prosegue nell’italiano contare (parola di tradizione diretta) e computare (latinismo introdotto in italiano probabilmente nel XII secolo). Ma certo la provenienza latina di una parola non rende di per sé necessario che essa esista anche in italiano, e quindi può succedere che finiamo per riceverla attraverso l’inglese. Ad esempio, ha origini latine anche l’inglese computer, da (to) compute, risalente allo stesso verbo latino che sta alla base di accountability, stavolta attraverso il francese del XVI-XVII secolo. Oppure, per fare un altro esempio, l’inglese sport è dall’antico francese desport, ‘divertimento, svago’, che contiene il latino portare, e da cui si è fatto anche l’italiano diporto, nel XIII secolo. L’inglese, infatti, oltre ai latinismi dotti di cui si è dotato nel corso della storia come un po’ tutte le lingue di cultura occidentali, ha una grande porzione del suo lessico che è di origine latina perché proveniente dall’antico francese parlato dai normanni di Guglielmo il Conquistatore, che hanno stabilito per secoli il loro potere sull’Inghilterra a partire dalla battaglia di Hastings (1066 dC). Inoltre ha incorporato francesismi anche in epoca moderna, quando facevano lo stesso tutte le lingue europee, e non solo.
Electroencephalographic (EEG) signals can reveal the cost required to deal with information structure mismatches in speech or in text contexts. The present study investigates the costs related to the processing of different associations... more
Electroencephalographic (EEG) signals can reveal the cost required to deal with information
structure mismatches in speech or in text contexts. The present study investigates the costs
related to the processing of different associations between the syntactic categories of Noun
and Verb and the information categories of Topic and Focus. It is hypothesized that – due to
the very nature (respectively, predicative and non-predicative) of verbal and nominal
reference – sentences with Topics realized by verbs, and Focuses realized by nouns, should
impose greater processing demands, compared to the decoding of nominal Topics and
verbal Focuses. Data from event-related potential (ERP) measurements revealed an N400
effect in response to both nouns encoded as Focus and verbs packaged as Topic, confirming
that the cost associated with information structure processing follows discourse-driven
expectations also with respect to the word-class level.
https://www.micromega.net/eclissi-intellettuale-impegnato/ Durante l'ultimo anno e mezzo, con il covid, a tratti è avvenuta una cosa rara, ossia c'è stato qualche attimo di interesse generale, anche di popolo, per le prese di posizione... more
https://www.micromega.net/eclissi-intellettuale-impegnato/

Durante l'ultimo anno e mezzo, con il covid, a tratti è avvenuta una cosa rara, ossia c'è stato qualche attimo di interesse generale, anche di popolo, per le prese di posizione degli scienziati e perfino per quelle-non sempre stupende-di alcuni veri, raffinati uomini di cultura. Non quindi una ribalta per i soliti "intellettuali" piacioni che si esibiscono brandendo banalità rassicuranti o politically correct, ma proprio per intellettuali veri. A una cosa del genere non eravamo più abituati, e c'è voluta una calamità planetaria perché accadesse. Prendendo posizione sulla regolamentazione della pandemia, gli intellettuali hanno fatto capolino sotto i riflettori.
The paper builds on the assumption that conveying some information implicitly causes reduced critical attention on that content by addressees, as compared to the overt assertion of the same content. This may have precise evolutionary... more
The paper builds on the assumption that conveying some information implicitly causes reduced critical attention on that content by addressees, as compared to the overt assertion of the same content. This may have precise evolutionary reasons, connected to the core functions for which language has evolved, and to the fact that – in particular – implicatures partly entrust the construction of the message content to the addressee. It is proposed that implicatures and stereotypes reinforce each other in producing persuasive effects. The way these two categories interact is shown on the basis of first-hand data from advertising texts and political propaganda, where persuasion is a primary function. Implicatures are more easily drawn if the content to be recovered is a stereotype, as compared to less expectable information. At the same time, stereotypes are more easily accepted and less probably challenged if they are presented implicitly, via implicature. Thus, the exploitation of stereotypes and implicatures has a twofold, bidirectional effect. The stereotypical assumptions guide the implicature process, and at the same time they are re-inforced by that process. If directly asserted, many stereotypes would appear as too simplistic and exaggerate a representation of reality; but since they are only evoked implicitly during the inferential process, they get some chance to bypass the addressees’ critical reaction and to be transferred into their set of beliefs. These facts are widely exploited in persuasive communication, especially when trying to convince the target audience about things that are not true. Consequently, awareness of them should be regarded as an important ingredient of democratic cohabitation.
We propose that implicatures and stereotypes reinforce each other in producing persuasive effects. The way these two categories interact is shown on the basis of first-hand data from advertising texts and political propaganda, where... more
We propose that implicatures and stereotypes reinforce each other in
producing persuasive effects. The way these two categories interact is shown on
the basis of first-hand data from advertising texts and political propaganda, where
persuasion is a primary function. Implicatures are more easily drawn if the content
to be recovered is a stereotype, as compared to less expectable information. At
the same time, stereotypes are more easily accepted and less probably challenged
if they are presented implicitly, via implicature. Thus, the exploitment of stereotypes
and implicatures has a twofold, bidirectional effect. The stereotypical assumptions
guide the implicature process, and at the same time they are re-inforced by that
process. If directly asserted, many stereotypes would appear as a too simplistic and
exaggerate representation of reality; but since they are only evoked implicitly during
the inferential process, they get some chance to bypass the addressees’ critical reaction
and to be transferred into their set of beliefs. These facts are widely exploited
in persuasive communication, especially when trying to convince the target audience
about things that are not true. Consequently, awareness of them should be regarded
as an important ingredient of democratic cohabitation.
Available here until September 10, 2021: https://authors.elsevier.com/a/1dSFw1L-nhLyxq The paper deals with the relation between linguistic presupposition and epistemic vigilance. It proposes evolutionary and cognitive reasons why... more
Available here until September 10, 2021: https://authors.elsevier.com/a/1dSFw1L-nhLyxq

The paper deals with the relation between linguistic presupposition and epistemic vigilance. It proposes evolutionary and cognitive reasons why presuppositions should induce shallower processing, that proves effective in persuasion and manipulation. It shows examples of presuppositions being associated with reduced critical attention from commercial advertising and political propaganda. It summarizes the available experimental verification of this assumption, commenting on the fact that behavioural evidence confirms reduced attention for presupposed contents, while neurophysiological evidence, on the contrary, shows increased processing effort. An explanation for the apparent contradiction is proposed, namely that the measured effort accounts for the mismatch between the cognitive and contextual status of new information and its being linguistically presented as presupposed. The fact that processing resources are devoted to repairing the mentioned mismatch is seen as further reducing the attentional resources available for epistemic vigilance and critical evaluation.
L’inglese contemporaneo è bene attrezzato con due parole diverse per designare le informazioni false: disinformation significa ‘informazione intenzionalmente falsa’, mentre misinformation si riferisce a qualunque informazione errata,... more
L’inglese contemporaneo è bene attrezzato con due parole diverse per designare le informazioni false: disinformation significa ‘informazione intenzionalmente falsa’, mentre misinformation si riferisce a qualunque informazione errata, anche se non fabbricata o trasmessa intenzionalmente. Quindi la disinformation è un sottoinsieme della misinformation. La disponibilità del primo termine, d’altra parte, fa sì che quando si usa il secondo si intenda spesso non tutta l’informazione falsa, ma specificamente quella non intenzionale.

Socialmente questi due tipi di informazione non sono certo fenomeni nuovi, ma i recenti mezzi tecnologici per la diffusione di contenuti hanno messo a loro disposizione una assai maggiore capacità di nuocere. Per capire la storia recente dei termini, si potrebbe osservare che in particolare i social media hanno cambiato la proporzione tra disinformation e misinformation. Prima dei vari Facebook, Twitter e simili, la diffusione di informazione su larga scala era prerogativa di entità bene organizzate (giornali, radio, televisioni), che quindi difficilmente potevano dare informazioni false in piena buona fede; insomma, le notizie false erano molto più probabilmente intenzionali (disinformation) che accidentali (semplice misinformation). Oggi invece qualsiasi persona ignara e ignorante ha i mezzi per diffondere qualunque informazione, e quindi, accanto alla mai tramontata malafede, è diventato più frequente che l’ampia diffusione di informazioni errate abbia per causa la semplice ignoranza. Forse anche per questo il termine misinformation è oggi alla ribalta anche in Italia, e ci domandiamo come tradurlo.

Tuttavia, in inglese misinformation è in uso dalla fine del XIV secolo, mentre disinformation esiste solo dal 1955, e forse è tratto dal russo dezinformacija, usato almeno dal 1949, che probabilmente a sua volta è dal francese désinformation, benché questo sia attestato qualche anno dopo. In italiano, disinformazione esiste almeno dal 1983.

Accanto alla maggiore varietà lessicale rispetto all’italiano, in questo comparto l’inglese mostra però una minore varietà morfologica, che a ben guardare si ripercuote sui valori semantico-lessicali. In inglese information è termine non numerabile, cioè non ha forme diverse per il singolare e il plurale, e non può essere introdotto dall’articolo, né singolare né plurale. Si comporta, cioè, come wine ‘vino’ o rice ‘riso’, che ammettono il plurale solo nel senso di ‘un tipo, una marca di vino/riso’. Il risultato è che qui l’inglese può valersi di una minore varietà di mezzi rispetto all’italiano. Insomma, in inglese non si può dare “un’informazione”, ma solo “dell’informazione”. L’italiano invece può distinguere fra due forme: questa è informazione falsa oppure questa è un’informazione falsa, con l’articolo, oppure al purale queste sono informazioni false; e il risultato è la distinzione fra due significati diversi, cioè rispettivamente ‘il fatto di informare’ in modo scorretto e ‘il contenuto di cui si informa’. Di solito anche l’articolo determinativo (l’informazione) produce il senso di ‘atto dell’informare’, oppure quello generico di ‘l’insieme dei contenuti’, o ancora, per ulteriore metonimia, ‘l’insieme di coloro che informano’. In ogni modo, la nostra lingua può distinguere mediante diversi strumenti morfosintattici tra l’informazione come atto di informare e i contenuti di cui si informa; mentre in inglese l’espressione che si usa è la stessa per le due cose: this is misinformation, che lascia ambiguo, e quindi semmai da capire grazie al contesto, quale dei due sia il senso inteso.

Ma si badi bene: come ha osservato genialmente Roman Jakobson, le vere differenze fra le lingue non riguardano ciò che possono esprimere, bensì cioè che devono esprimere. Per farne un esempio classico, in inglese è possibile non esprimere il genere in casi come questo: Yesterday I spent the evening with my neighbour, mentre in italiano si è obbligati a farlo: Ieri ho passato la serata con il mio vicino / la mia vicina; con tutte le conseguenze del caso.
Approfittando che sono spesso associate a condanne un po' troppo automatiche, alcune parole possono essere usate per creare capri espiatori, distogliendo l'attenzione dalle vere cause di un male e dai veri responsabili di un'ingiustizia.... more
Approfittando che sono spesso associate a condanne un po' troppo automatiche, alcune parole possono essere usate per creare capri espiatori, distogliendo l'attenzione dalle vere cause di un male e dai veri responsabili di un'ingiustizia.

Dopo la terribile uccisione di Saman Habbas da parte dei suoi familiari in nome dei valori tradizionali a cui non voleva sottomettersi, come in precedenti occasioni dello stesso tipo, diversi rappresentanti della cultura islamica hanno preso iniziative volte a smarcarsi. Facciamo solo un paio di significativi esempi.  Nadia Bouzekri, vicepresidente dell'Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha rilasciato un'intervista al Corriere della sera, uscita il 9 giugno 2021 con il titolo: L'Islam non c'entra. Nozze forzate illegali anche in Pakistan. In essa si incontrano frasi come questa:

"ripeto, la religione non c'entra e nemmeno la cultura: in Pakistan i matrimoni forzati sono illegali".

Da questo assetto giuridico l'interessata vorrebbe che noi capissimo che in Pakistan non esiste una cultura (fortemente intrisa di religione) dei matrimoni forzati; mentre noi, suo malgrado, capiamo immediatamente che è il contrario.
Download available here until July 18, 2021: https://authors.elsevier.com/c/1d8xz1L-nhLyl9 The IMPAQTS corpus of Italian political speeches annotated per implicit contents contains recurrent examples of NPs introduced by indefinite... more
Download available here until July 18, 2021:
https://authors.elsevier.com/c/1d8xz1L-nhLyl9

The IMPAQTS corpus of Italian political speeches annotated per implicit contents contains recurrent examples of NPs introduced by indefinite articles which are characterized by anaphoric specific reference:

(Questa legge) hanno tentato di dichiararla anticostituzionale per non applicarla a una persona che si ritiene al di sopra della giustizia.
(This law) they tried to declare it unconstitutional so as not to apply it to a person who thinks to be above justice.

Such examples must be interpreted as anaphorically referring to a specific, identifiable referent, recoverable in the co-text or in the universe of discourse. Consequently, they activate a presupposition of existence for the mentioned entity, thus revealing that indefinite expressions can trigger existential presupposition in a similar way to definite descriptions. We analyze the formal characteristics of such presuppositional indefinite descriptions”, which show a recurrent syntactic and semantic structure. As for their functions, we show that they allow a different distribution of the speaker's responsibility on the contents of the utterance, as compared to definite descriptions. This is particularly relevant for the syntactic expansions to the indefinite NPs, whose contents are typically derogatory and disputable, which - in persuasive discourse - makes it beneficial for them to be conveyed in an implicit way.
Micromega Online: https://www.micromega.net/sentirsi-in-colpa-di-avere-subito-violenza/ C’è un’espressione che ricorre nelle testimonianze delle donne che hanno subito violenza, e di cui può non essere facile capire il senso, perché... more
Micromega Online: https://www.micromega.net/sentirsi-in-colpa-di-avere-subito-violenza/

C’è un’espressione che ricorre nelle testimonianze delle donne che hanno subito violenza, e di cui può non essere facile capire il senso, perché origina da complessi condizionamenti sociali.

Di recente, reagendo alle obbiezioni come minimo semplicistiche di Beppe Grillo sulla non immediatissima denuncia del presunto stupro che si addebita al figlio Ciro e a tre suoi amici, una giovane donna (Eva Dal Canto) ha diffuso un video molto cliccato in cui racconta di avere subìto violenza (12 anni prima) e di non averla denunciata. Spiega la mancata denuncia di allora, e il modo diverso in cui si comporterebbe adesso, con queste parole:

Pensavo di essere ugualmente responsabile. Adesso so che io non ho più niente di cui vergognarmi

Il suo non è un caso isolato. Anzi, giustamente da molte parti si invoca questo fattore (insieme ad altri pure importanti) per chiarire che una denuncia ritardata non è indice di mancata violenza: insomma, la vittima di una violenza sessuale può perfino preferire di non denunciare affatto, e quindi può avere almeno bisogno di tempo per decidersi a farlo, anche perché può ritenersi responsabile, sentirsi in colpa e vergognarsi.

È agghiacciante che una persona possa sentirsi in colpa perché è stata stuprata. Ma occorre chiarire che purtroppo (fra poco vedremo il perché di questo avverbio) la responsabilità e la causa di un tale senso di colpa non stanno direttamente nel comportamento dello stupratore. Lo stupratore ha intera la responsabilità della violenza, che è certo assai peggiore, ma di cui non scriviamo qui perché è già tristemente chiara. Invece la responsabilità del senso di colpa ce l’hanno quelli che si sono sempre chiamati i benpensanti, cioè coloro che rappresentano il sesso come qualcosa di sporco, di sbagliato, di colpevole.

Infatti solo della violenza sessuale ci si vergogna e ci si sente in colpa: nessuno si sente in colpa perché gli hanno sparato, perché lo hanno ferito, perché lo hanno picchiato, perché gli hanno rubato qualcosa. Quindi non si tratta della vergogna per non essere stati bravi a evitare il danno, o per avere indotto in tentazione il malintenzionato con qualche deficit di vigilanza. È proprio di avere fatto sesso, che ci si vergogna e ci si sente in colpa. Il timore di rivelare che si è stati coinvolti nel far accadere del sesso è tale, che si teme di essere giudicati sporchi perfino quando si è stati costretti. E al punto da non essere sicuri di voler agire pubblicamente per ottenere giustizia.

Insomma, un motivo molto importante per cui chi subisce violenza sessuale ha difficoltà a far valere i propri diritti, è che tuttora ci si deve vergognare di avere fatto sesso. La vita sessuale delle persone è tuttora bersaglio di ridicolizzazione e discredito, che di fatto impongono di nasconderla come si devono nascondere i crimini e le peggiori umiliazioni. A poco servono le dichiarazioni esplicite che si è superata questa mentalità; anzi sono dannose, se nei fatti essa sopravvive. È importante che la nostra civiltà capisca questo, nonostante che l’abitudine a convivere con la disapprovazione del sesso la renda invisibile, agli occhi dei più, come l’aria che respiriamo: fintanto che non l’avremo tutti capito, chi subisce una violenza sessuale continuerà a subire una violenza doppia. La prima dal violento, la seconda dai benpensanti. La prima è una violenza fisica, e quindi anche psicologica. La seconda è ideologica, e di conseguenza anche psicologica ed esistenziale. La prima è incomparabilmente più intensa, e concentrata in momenti orrendi, il cui ricordo spesso rimane doloroso e devastante per lungo tempo; la seconda è meno intensa, ma asfissiante perché è in atto sempre e ovunque; e per la verità anche su tutte le persone che non subiscono quella del primo tipo.

Come è facile verificare, dello screditamento del sesso sono complici quasi tutti. Dai moralisti espliciti, a quelli che fanno una battuta vigliacchetta sulla libertà con cui vive una persona di conoscenza, ai genitori cui la figlia deve raccontare che esce con un’amica.[1] Al punto che poi a tutti sembra di non esserne colpevoli. Ma la cosa più odiosa è che alcune delle persone che più si adoperano a perpetuare lo screditamento del sesso si esibiscono proprio in prima fila come nemiche della violenza sulle donne. Si proclamano paladine della condizione femminile un sacco di persone che considerano qualsiasi associazione di una donna a un’allusione sessuale come una degradazione di quella donna. Persone per le quali rappresentare (ad esempio in una pubblicità) una donna come disponibile o desiderosa di sesso equivale a umiliarla e svilirla. Persone secondo cui la prostituzione è sempre degradazione della donna, anche se da lei liberamente scelta ed esercitata, perché il sesso fuori di un rapporto sentimentale svilisce e umilia anche se avviene senza costrizione o sfruttamento.

Queste persone opprimono le donne con la condanna del sesso separato dall’amore monogamo, che è un retaggio squisitamente religioso, e fingono di difendere le donne. Queste persone, rispetto ai vecchi benpensanti da parrocchia, hanno l’aggravante della modernità, perché un pensiero arcaico dovuto a ignoranza, per quanto dannoso, può essere soggettivamente poco colpevole, ma chi perpetua questa mentalità dopo avere letto Simone de Beauvoir non ha scuse. E hanno l’aggravante ancora peggiore dell’ipocrisia attiva, perché questa repressione ideologica viene ammantata con la bugia della difesa delle donne.

Ma soprattutto, ed è la ragione per cui è necessario parlarne, queste persone sono ormai, per la causa delle donne, molto più nocive dei vecchi benpensanti. Ai vecchi benpensanti è più facile oggi per una donna (specialmente se giovane e istruita) non dare più retta. Ma a coloro che si proclamano femminist♫ e paladin♫ della causa delle donne è più difficile non accodarsi. Ebbene, una parte purtroppo sempre più rumorosa di costoro ha ripreso a perpetuare l’idea che per una donna essere coinvolta in cose di sesso sia degradante, e specificamente che gli uomini siano nemici delle donne quando manifestano apertamente la voglia di coinvolgerle (non di forzarle) in cose di sesso. Ebbene, a costoro è assai più difficile per una donna (specialmente se giovane e istruita) non dare retta. E quindi, proprio quando sembrava che le donne (e tutti noi) si stessero liberando dei benpensanti del primo tipo, il moralismo profondo di molte persone, per non soccombere, ha trovato un nuovo travestimento, e la condanna del desiderio si camuffa da difesa delle donne. ♫ benpensant♫ del secondo tipo hanno raccolto il testimone di quell♫ del primo tipo, e quindi di nuovo, dopo una breve e solo parziale parentesi post-sessantottina, le donne sono bersaglio continuo di bugie secondo cui vedersi coinvolgere in cose di sesso sia vedersi sporcare e degradare.

Il fenomeno ha proporzioni. Molte di queste personalità neoperbeniste atteggiate a paladine della condizione femminile accattano una facile popolarità, di fatto ingannando e danneggiando le donne. È necessario cominciare ad accorgercene. Se ci si riuscirà, un giorno nessuna donna dovrà più vergognarsi di “esserci stata”: né volontariamente, né perché costretta.
The paper shows that implicit strategies for questionable contents are frequent in persuasive texts, as compared to texts with other purposes. It proposes that the persuasive and manipulative effectiveness of introducing questionable... more
The paper shows that implicit strategies for questionable contents are frequent in persuasive texts, as compared to texts with other purposes. It proposes that the persuasive and manipulative effectiveness of introducing questionable contents implicitly can be explained through established cognitive patterns, namely that what is felt by addressees as information coming (also) from them and not (only) from the source of the message is less likely to be challenged. These assumptions are verified by showing examples of “implicitness of evidential responsibility” (essentially, presuppositions, and topics) as triggers of lesser attention in advertising and propaganda. A possible evolutionary path is sketched for three different pragmatic functions of presuppositions, leading to their availability for manipulation. The distraction effect of presuppositions and topics is also explained in relation with recent developments of Relevance Theory. Behavioral evidence that presuppositions and topics induce low epistemic vigilance and shallow processing is compared to recent neurophysiological evidence which does not confirm this assumption, showing greater processing costs for presuppositions and topics as compared to assertions and foci. A proposal is put forward to reconcile these apparently contrasting data and to explain why they may not be in contrast after all. Also due to natural language quick processing constraints (a “Now-or-Never processing Bottleneck”), effort devoted to accommodation of presupposed or topicalized new contents may drain resources from concurrent epistemic vigilance and critical evaluation, resulting in shallower processing.
What about linguistics is of interest to people, and what would be, if they knew it. . This is a small contribution on how to spread linguistics among the uninitiated. People often ask linguists about linguistic issues, mainly in order to... more
What about linguistics is of interest to people, and what would be, if they knew it.
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This is a small contribution on how to spread linguistics among the uninitiated. People often ask linguists about linguistic issues, mainly in order to get confirmation of their opinions about someone else's "errors". Other linguistic topics seem to be of much lesser interest to them. This attitude, which sees linguistics as a merely prescriptive discipline, has historical roots: indeed, linguistics is often thought as identical with the teaching of grammar in schools. The paper stresses that, however, also the descriptive side of linguistics can arouse people's curiosity: a wide range of linguistic phenomena would be found very interesting by most people, if brought to their attention. Examples are given from all levels of linguistic structure, from phonetics to morphosyntax and pragmatics, including language change. Finally, a general attitude is proposed for the effective dissemination of the language sciences, based on systematically pointing out the relationship between the findings of linguistics and everyday life. Such an attitude is suggested as possibly very useful also with university students at the beginning of linguistics courses.
Available here: https://www.lescienze.it/archivio/articoli/2021/01/04/news/la_lingua_per_ingannare-4862930/ ABSTRACT: Quando ci si rivolge a destinatari diffidenti, che hanno motivo di dubitare della verità di quello che gli si dice,... more
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ABSTRACT: Quando ci si rivolge a destinatari diffidenti, che hanno motivo di dubitare della verità di quello che gli si dice, occorre attrezzarsi per aggirare la loro attenzione critica. È quello che fanno da tempo i comunicatori persuasivi, come la pubblicità e la propaganda politica. Questo scopo viene ottenuto anche attraverso precise strategie linguistiche.
Come tutti sanno, in pubblicità le immagini contano più del testo. Questo non è dovuto solo al fatto che il nostro sistema nervoso alloca più risorse alla visione che al linguaggio. È dovuto anche al fatto che siamo meno portati a mettere in discussione le immagini che le asserzioni. Se uno spot mostra un gruppo di persone giovani, ricche, belle, eleganti e felici che bevono un brandy, trasferisce nei destinatari l'impressione che ci sia un'affinità fra essere quel tipo di persone e bere quel brandy. Senza troppo domandarsi se questo sia vero, le nostre menti vengono influenzate da quell'idea. Ma la stessa idea, se ci fosse proposta sotto forma di un enunciato (Chi è giovane, ricco, bello, elegante e felice beve Glen Grant!), ci indurrebbe a vagliarla criticamente, e la rifiuteremmo come esagerata e ridicola. La causa di questo è probabilmente quella che Krebs e Dawkins negli anni '70 e '80 studiando i sistemi di comunicazione animale hanno chiamato "sales resistance", cioè "resistenza all'acquisto" nei confronti di contenuti trasmessi da individui conspecifici.
Come gli altri animali, anche noi abbiamo evoluto i nostri sistemi di comunicazione  per persuadere gli altri individui a fare quello che vogliamo. Nel contempo, però, non potevamo non evolvere anche la tendenza a resistere a questa manipolazione. Perciò, quando un conspecifico cerca di convincerci, innalziamo delle difese cognitive e sottoponiamo a vaglio critico quello che ci dice, per decidere se credergli e assecondarlo, o no.  La differenza fra immagini e linguaggio è proprio questa: un enunciato linguistico proviene necessariamente da un individuo umano, quindi rivela l'esistenza di un conspecifico che vuole convincerci; le immagini, invece, hanno l'apparenza della semplice realtà. Perciò, quando non riflettiamo coscientemente che oggi molte immagini sono altrettanto fabbricate da individui quanto lo sono gli enunciati, esse non fanno scattare la nostra reazione critica. In due parole: gli enunciati linguistici sono espliciti nel proporre il proprio contenuto, mentre le immagini sono implicite.
Ecco perché la pubblicità e la propaganda preferiscono affidare alle immagini i contenuti discutibili: è molto meno probabile che ci si accorga che sono falsi. Ma che cosa succede se il contenuto da trasmettere è di un tipo che richiede proprio formulazione linguistica? Il pubblicitario si rassegna e lo trasmette con una esplicita asserzione? In realtà no, perché ha a disposizione una terza via: codificarlo nella parte implicita dell'enunciato.
Ad esempio, in questa pubblicità dei primi anni '90 la Philips si presentava con un'intenzione amichevole: lascia che Philips ti apra gli occhi. Ebbene, il verbo aprire presuppone che qualcosa sia chiuso. Dicendo "apri la porta" io fra l'altro informo il mio destinatario che in quel momento la porta è chiusa. Ma non gli dico esplicitamente "la porta adesso è chiusa", glielo trasmetto in maniera implicita. La differenza è che l'informazione implicita viene processata con minore attenzione. Questo va benissimo se è informazione vera e neutrale, perché non serve attirare separatamente la stessa attenzione su tutti i contenuti. È per questo che non diciamo: "La porta adesso è chiusa. Apri la porta", ma basta dire "Apri la porta": l'altro capirà, senza però concentrarsi su questo, che la porta è chiusa, e si focalizzerà di più sulla richiesta di aprirla. Ma c'è un effetto collaterale:  l'abitudine a processare con minore attenzione l'informazione implicita può condurre a non accorgersi di quando è falsa o esagerata. Ad esempio, se Philips ci dicesse: "Tu stai vivendo con gli occhi chiusi", ci accorgeremmo che – anche per metafora – è un'esagerazione offensiva. La nostra non è una vita a occhi chiusi. Eppure di fatto Philips ce lo comunica, e noi non ci offendiamo, né ci attiviamo cognitivamente per metterlo in dubbio, perché ci viene comunicato in modo implicito, e all'implicito dedichiamo meno attenzione critica. In buona parte l'idea che viviamo con gli occhi chiusi (finché non abbiamo un televisore Philips) entra a far parte della nostra concezione del mondo e di noi stessi. Così ci rimane l'impressione di stare in una condizione disagiata, dove avremmo bisogno di un nuovo televisore. Che la soluzione sarebbe acquistarlo, ci è comunicato di nuovo in maniera implicita. Philips non formula esplicitamente che "comprare uno schermo Philips ti aprirà gli occhi", perché anche questo lo riconosceremmo esagerato. Preferisce lasciare che siamo noi a implicarlo dall'accostamento con l'immagine del prodotto. E poiché lo implichiamo noi, non siamo portati a metterlo in discussione.
Il ricorso a quelli che i linguisti chiamano "verbi di cambiamento di stato", come appunto aprire, è una strategia costante della pubblicità per veicolare informazioni in maniera implicita. Venticinque anni dopo la Philips, Citroën insinua la stessa cosa al suo target: Non guardare il mondo con gli occhi degli altri. Apri i tuoi. Citroën ds4. E usando altri verbi di trasformazione, Renault esprime in maniera implicita un concetto simile e altrettanto offensivo (Stop watching, start living. Renaut Kadjar), a cui di certo reagiremmo con un rifiuto cognitivo più netto se fosse asserito esplicitamente: "Tu non stai vivendo la tua vita, la stai solo guardando. Comincerai a vivere quando comprerai una Kadjar". Per il pubblicitario è decisamente più sicuro comunicarlo in forma implicita.
Il padre felice di questa pubblicità Alfa Romeo (coeva di quella Philips appena mostrata) sembra volerci proprio dire che a 18 anni ci si sente grandi se si compra un'Alfa. Non è questo, però, il contenuto che sta più a cuore al pubblicitario. Per vendere le Alfa, è molto più importante convincere tutti (non solo i rari padri di figli diciottenni) che le Alfa soddisfano chi le guida. Non per caso, proprio questo ci viene comunicato in maniera implicita: E mi sono sentito grande con la mia prima Alfa presuppone, e trasferisce "sotto traccia" nelle nostre coscienze, che dopo la prima si comprino altre Alfa. Se fosse detto esplicitamente, "Chi compra un'Alfa, poi continua a comprare Alfa", ci accorgeremmo che non è vero. Essendo implicito, invece, riesce in qualche misura a installarsi nella nostra rappresentazione del mondo.
Lo stesso concetto, sempre in modo accuratamente implicito, è usato da Audi trent'anni dopo: It is time for your first Audi.
Un altro modo per trasferire un'informazione linguisticamente ma senza asserirla è quello usato dal formaggetto dietetico Jocca: La freschezza di Jocca ha solo il 7% di grassi sembra volerci informare che quel prodotto è dietetico. In realtà l'informazione più importante per venderlo è presupposta dal sintagma nominale con l'articolo determinativo La freschezza di Jocca. Già nel 1905 Bertrand Russell, studiando le proprieà delle descrizioni definite, cioè dei sintagmi nominali con l'articolo determinativo, si era accorto che "L'attuale re di Francia è calvo", quando la Francia è una repubblica, non era né vero né banalmente falso, perché non asseriva l'esistenza del re di Francia, ma la dava per presupposta, come un dato di fatto noto a tutti. Ebbene, qui La freschezza di Jocca è data per scontata, come se fosse un'informazione già condivisa dai destinatari. Se il pubblicitario avesse usato un'asserzione (Jocca comunica una sensazione di freschezza), avrebbe attirato l'attenzione su quel contenuto, provocando in molti la riflessione cosciente che purtroppo quel tipo di formaggio senza grassi comunica in realtà sensazioni di molto inferiori ai "veri" formaggi freschi. Così, invece, si trasferisce relativamente indisturbata nella mente dei destinatari l'idea che "la freschezza di Jocca" sia un attributo notevole, e ben noto a tutti, del prodotto reclamizzato.
Al cambiare degli oggetti da propagandare, gli strumenti linguistici restano gli stessi. Negli ultimi mesi Trenitalia ha diffuso l'immagine di un suo treno con questa headline: Frecciarossa. La firma dell'alta velocità italiana. Come era già chiaro a Russell e a P.F. Strawson  con cui ne discuteva (e prima di loro a Gottlob Frege, padre della logica moderna), descrizioni definite come "l'attuale re di Francia" o "la firma dell'alta velocità italiana" presuppongono sia l'esistenza del loro referente, sia la sua unicità. Dicendo "la sedia" presuppongo, cioè lascio intendere come cosa ovvia e scontata, che nella situazione in cui parlo ce ne sia solo una a cui potrei riferirmi; altrimenti dovrei dire "una sedia". Dunque, dire "La firma dell'alta velocità" serve a dare per scontato che non ne esistano altre. Asserirlo esplicitamente sarebbe più rischioso, perché se Trenitalia avesse scritto che "Frecciarossa è l'unico operatore di alta velocità in Italia", tutti si sarebbero accorti che era una bugia. L'unico modo per far passare nella mente di molti destinatari l'impressione che le cose stiano così, è indurli a processare quell'informazione nel modo superficiale che di solito riserviamo ai contenuti presentati come presupposti.
Anche la propaganda politica deve persuadere persone diffidenti e prevenute, consapevoli che i messaggi sono spesso poco attendibili. Destinatari, cioè, pronti ad accorgersi se quello che i messaggi dicono è falso.
In questi giorni si parla molto di revenge porn, per lo scalpore suscitato dalla vicenda della maestra di Torino il cui ex compagno ha diffuso materiale che la ritraeva in atteggiamenti sessuali, causandone il licenziamento dalla scuola... more
In questi giorni si parla molto di revenge porn, per lo scalpore suscitato dalla vicenda della maestra di Torino il cui ex compagno ha diffuso materiale che la ritraeva in atteggiamenti sessuali, causandone il licenziamento dalla scuola dove insegnava.

Il modo in cui si usa la parola, in questo e in molti altri casi, è poco onesto; perché presenta le cose in una versione di comodo. Infatti si parla di questi episodi come se gli autori della vendetta e delle sue conseguenze fossero alcuni precisi, visibili colpevoli, e si sorvola su tutti gli altri. Cioè, si sorvola sul fatto che i colpevoli reali sono tantissimi, e che fra loro ci sono anche molti di coloro che puntano il dito contro i colpevoli più palesi.

Vediamo i colpevoli palesi:

1. La persona, tipicamente ex compagno, che per danneggiare una donna, o anche solo per vantarsi di essercisi accoppiato, diffonde prove visive di questi accoppiamenti.

2. Coloro che ne aumentano la diffusione girandoli sul web.

3. Coloro che a seguito di questa rivelazione adottano comportamenti ostili nei confronti di quella donna: pubblico disprezzo, oppure, come nell’ultimo caso, licenziamento motivato da questo disprezzo.

Ma se questo porn riesce a essere revenge, è perché l’intera società è complice. Infatti, si può dmostrare che gli indispensabili complici del propagatore del filmato sono:

4. Tutti quelli che disapprovano e disprezzano chi fa sesso.

E non solo: come ho cercato di spiegare recentemente,[1] anche:

5. Tutti quelli che non lo disapprovano realmente, se non altro perché il sesso lo fanno anche loro; ma ne approfittano comunque per deridere, screditare o condannare chi lo fa, soprattutto se femmina, nelle mille forme che le relazioni sociali mettono a disposizione.

6. Tutti coloro che quando vedono in una pubblicità una donna in atteggiamento sessualmente provocante sostengono che l’immagine della donna in quella pubblicità viene svilita.

7. Tutti coloro che sostengono che nel prostituirsi c’è ipso facto una umiliazione e una degradazione, anche se non c’è sfruttamento ma si tratta di una scelta libera.

8. Quelli che si scandalizzano e considerano degradante che il sex appeal venga fatto valere da molte donne per procurarsi una migliore carriera e avere successo nella società.

9. Tutti i genitori che esplicitamente, o peggio ancora implicitamente, trasmettono ai loro figli e alle loro figlie l’idea che nel sesso ci sia qualcosa di male.
Si potrebbe dire, come fanno molti, che la parola in questione va comunque evitata per motivi pratici e psicologici: per incoraggiare comunque ad abbandonarne le conseguenze discriminatorie. Ma questo è forse la parte peggiore di tutta... more
Si potrebbe dire, come fanno molti, che la parola in questione va comunque evitata per motivi pratici e psicologici: per incoraggiare comunque ad abbandonarne le conseguenze discriminatorie. Ma questo è forse la parte peggiore di tutta l’ideologia che sta dietro alla proposta di bandire razza, e come lei altre parole incolpate di cose che non dipendono affatto da loro. Infatti, dire che per non essere razzisti sia necessario evitare la parola, significa dire che per non discriminare in base a differenze occorra fingere che le differenze non ci siano. Invece, la cosa desiderabile è che vedendo le differenze, e riconoscendo che ci sono, non si discrimini. Che civiltà saremmo, se fossimo capaci di non discriminare solo l’uguale, e quindi per non discriminare il diverso dovessimo fingere che sia uguale? Davvero eliminiamo il razzismo, se per non discriminare l’altro abbiamo bisogno di credere che le razze non esistono, cioè che il motivo per non discriminare una persona è che... appartiene alla mia razza? Insomma, il non razzismo che hanno in mente queste persone sarebbe il rispetto per la mia razza. Mamma mia. Ebbene, questa è la via antirazzista proposta dal politically correct.
Dal Belgio, un lettore segnala che in un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 16 febbraio 2014 ha trovato questa frase: "Una città abituata a perpetrare le sue gerarchie si riconosce nel giovanotto venuto dal contado".... more
Dal Belgio, un lettore segnala che in un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 16 febbraio 2014 ha trovato questa frase: "Una città abituata a perpetrare le sue gerarchie si riconosce nel giovanotto venuto dal contado". Abbiamo controllato l'articolo, di Aldo Cazzullo, che riguarda la personalità e l'ascesa politica di Matteo Renzi. La città in questione è dunque Firenze, e il giovanotto venuto dal contado è il promettente Matteo, che proviene da Rignano sull'Arno. Il contesto permette di capire che il valore della frase è concessivo: benché abituata a non cambiare facilmente guida, Firenze questa volta sceglie come suo sindaco Renzi (preferendolo a personaggi più "storici", come il dirigente PD e già parlamentare europeo Lapo Pistelli, o l'ex portiere della fiorentina Giovanni Galli). Insomma, nel testo vi è un errore: perpetrare sta semplicemente al posto di perpetuare, che significa 'rendere perpetuo' , 'far durare (a lungo, al limite in eterno)'. Se si tratti di mero refuso o di vero scambio fra i due verbi, avvenuto in qualche fase della pubblicazione del testo, non è dato sapere con certezza; ma si possono fare delle ipotesi. Non per caso un'altra lettrice, da Torino, lamenta una certa frequenza di questa sostituzione, che esemplifica con l'espressione "perpetrare il ricordo di un evento", e ce ne chiede la causa. Un altro esempio ci viene segnalato da Milano, chiedendo se sia corretta questa frase, che la lettrice ha trovato leggendo un articolo su "Vanity Fair": "[...] aveva perpetrato il sogno di una famiglia". Non conoscendone il contesto, si può essere in dubbio. Ma facciamo un passo indietro per inquadrare il problema. Perpetrare significa 'eseguire, commettere' , e al tempo stesso presuppone che si tratti di azione illecita, ingiusta, colpevole. Non è l'unico verbo italiano a funzionare in questa maniera, e del resto il fenomeno si riscontra anche in altre lingue, come ad esempio l'inglese, su cui lo ha studiato per primo il linguista statunitense Charles Fillmore (1971). Trasferendo l'analisi di Fillmore all'italiano, possiamo osservare che verbi di giudizio che sentiamo diversi come accusare e biasimare trasmettono però lo stesso insieme di informazioni. Consideriamo questi enunciati, in tempo di isolamento da coronavirus: (1) Il carabiniere accusa Luigi di essere andato al parco. (2) Il carabiniere biasima Luigi per essere andato al parco. Entrambi gli enunciati si possono analizzare così: Contenuto a. Il carabiniere dice qualcosa di Luigi Contenuto b. Luigi è andato al parco Contenuto c. Andare al parco è male
La parola ‘prostituta’ – e ancor di più altri sinonimi usati per indicare la donna che vende servizi sessuali – è avvolta da un tale stigma da impedire a chiunque di usarla in maniera neutra. Tanto che si deve far ricorso a neologismi –... more
La parola ‘prostituta’ – e ancor di più altri sinonimi usati
per indicare la donna che vende servizi sessuali – è avvolta
da un tale stigma da impedire a chiunque di usarla in maniera
neutra. Tanto che si deve far ricorso a neologismi – escort, sex
worker, lavoro sessuale – per poter affrontare l’argomento senza
tema di risultare offensivi. Ma da dove deriva questo stigma?
Dal fatto che le prostitute vendono il proprio corpo come fosse una
merce, si dice. Ma l’avvocato non fa forse qualcosa di simile quando
vende le proprie competenze ai clienti, non di rado colpevoli?
No, il vero scandalo della prostituzione sta nel fatto che si tratta
di sesso fuori da legami impegnativi. È questo che la nostra
cultura cattolica non tollera.
It is proposed that, for the purpose of teaching, the uses of comma in Italian can be described in terms of 7 functionally di!erent types, namely the following: 1. Topic comma; 2. List comma; 3. Utterance comma; 4. Non- restrictive... more
It is proposed that, for the purpose of teaching, the uses of comma in Italian can be described in terms of 7 functionally di!erent types, namely the following: 1. Topic comma; 2. List comma; 3. Utterance comma; 4. Non- restrictive adjunct comma; 5. Left Focus comma; 6. Parenthesis comma; 7. Adposition comma. Understanding these functional types should help learners to “filter” their written productions: if a comma cannot be considered as one of the mentioned seven, it is probably a wrong comma.

Keywords: Italian, comma, functional classification, teaching.
Che cosa intendiamo con “vacanze”? Usiamo comunemente questa parola in espressioni come: sono stanco, ho bisogno di un po’ di vacanza, oppure ah, vedo che ti dai alla vacanza!, o Con la testa sei già in vacanza!, significativamente al... more
Che cosa intendiamo con “vacanze”? Usiamo comunemente questa parola in espressioni come: sono stanco, ho bisogno di un po’ di vacanza, oppure ah, vedo che ti dai alla vacanza!, o Con la testa sei già in vacanza!, significativamente al singolare, perché spesso la concepiamo come sinonimo di ‘riposo’, ossia di ‘non fare niente’. Ma è questo il suo vero senso? E soprattutto, questo senso del termine ci conviene, o interpretare così le vacanze rischia di farci perdere qualche cosa?

La parola ci arriva dal latino attraverso il francese vacance, ed è derivato del verbo vacare, cioè ‘essere privo di qualcosa’. In particolare, ha il senso di ‘essere privo dei propri impegni consueti’, quindi ‘avere tempo libero’. La radice è la stessa di vacuus, ‘vuoto’: la vacanza è un tempo vuoto, non già riempito da cose. Insomma, il vero senso della parola dice che si tratta di una potenzialità, del crearsi di occasioni, grazie al venir meno di occupazioni abituali (occupato infatti è proprio il contrario di vacante[1]): non è affatto necessario che questa libertà, questa potenzialità, debbano prendere la forma del non fare niente. Chi lo pensa sta equivocando.

Come è noto, questo equivoco ha già travolto la parola ozio: fin dai banchi di scuola si impara che per i nostri antichi progenitori l’otium non era la nullafacenza, ma il tempo dedicato alle cose elevate, perché libero dalle minuzie volgari che sono necessarie per tirare avanti. La vacanza era il tempo essenziale, quello che nobilitava e faceva crescere. Noi lo abbiamo disimparato.
The paper provides evidence that linguistic strategies based on the implicit encoding of information are effective means of deceptive argumentation and manipulation, as they can ease the acceptance of doubtful arguments by distracting... more
The paper provides evidence that linguistic strategies based on the implicit encoding of information are effective means of deceptive argumentation and manipulation, as they can ease the acceptance of doubtful arguments by distracting addressees' attention and by encouraging shallow processing of doubtful contents. The persuasive and manipulative functions of these rhetorical strategies are observed in commercial and political propaganda. Linguistic implicit strategies are divided into two main categories: the implicit encoding of content, mainly represented by implicatures and vague expressions, and the implicit encoding of responsibility, mainly represented by presuppositions and topics. The paper also suggests that the amount of persuasive implicitness contained in texts can be measured. For this purpose, a measuring model is proposed and applied to some Italian political speeches. The possible social usefulness of this approach is showed by sketching the operation of a website in which the measuring model is used to monitor contemporary political speeches.
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Il caso è simile a quello raccontato da Isaac Asimov in Foundation. Circa 50.000 anni dopo la scoperta dell'energia atomica, il pianeta della Fondazione è minacciato dal bellicoso pianeta Anacreon, che dispone di forze soverchianti. Ma l'ambasciatore dell'Impero, Lord Dorwin, ha appena terminato una visita diplomatica nel corso della quale, tenendo vari discorsi amichevoli e accorati, ha rassicurato tutti i governanti-scienziati di Fondazione sull'appoggio e la protezione dell'Impero contro eventuali minacce. Tutti i governanti-scienziati meno uno: l'uomo del destino e futuro salvatore della patria, il sindaco Salvor Hardin. Questi cerca di mettere in guardia il governo, asserendo che Anacreon attaccherà, e che l'Impero non interverrà a proteggere la Fondazione. I notabili tutti d'accordo obbiettano che le assicurazioni e le promesse di protezione fornite da Lord Dorwin a nome dell'Impero sono soddisfacenti. Hardin allora rivela di avere registrato ogni parola pronunciata da Lord Dorwin durante la visita diplomatica, e di avere chiesto ai colleghi del Dipartimento di Logica Simbolica di calcolarne il significato complessivo, al netto delle espressioni vaghe a cui non era possibile assegnare un senso preciso, e delle contraddizioni che si elidono l'una con l'altra come cifre di segno diverso in un'equazione. Il risultato, rivela Hardin agli inorriditi governanti di Fondazione, è il seguente: il collega Holk ha ammesso che l'analisi per cercare il significato nella prosa di Lord Dorwin è la più difficile che abbia mai fatta; ma alla fine, "dopo due giorni di lavoro, eliminando le vaghe affermazioni senza senso, i farfugliamenti, le osservazioni irrilevanti e tutta la fuffa diversiva, ha constatato che non rimaneva nulla. Tutto cancellato. Lord Dorwin, signori, in cinque giorni di discorsi non ha detto assolutamente niente."
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-bugie-come-metodo-a-fin-di-bene-al-tempo-della-pandemia/ Durante questa emergenza epidemiologica ci si è buttati ad analizzare linguisticamente la comunicazione sul coronavirus per scoprirne... more
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-bugie-come-metodo-a-fin-di-bene-al-tempo-della-pandemia/

Durante questa emergenza epidemiologica ci si è buttati ad analizzare linguisticamente la comunicazione sul coronavirus per scoprirne le peculiarità. Diversi commentatori hanno sostenuto che per parlare della malattia si sia fatto ricorso a metafore belliche con lo scopo di amplificare la paura e l'allarme. Il virus, cioè, è stato dipinto come un nemico da combattere, con tutto il lessico che ne consegue, per farlo apparire più minaccioso. Nei casi in cui la comunicazione era particolarmente allarmista è stato senza dubbio così, e le metafore hanno fatto la loro parte insieme ai numeri, al racconto degli episodi più tragici, e così via. Ma il fatto in sé di adottare il lessico della guerra non dimostra che ci sia il desiderio di creare allarmismo. Questo perché il lessico della guerra è quello più naturale per parlare della lotta a una malattia. La lingua non crea lessici apposta per tutte le possibili situazioni. Non c'è un verbo diverso per 'mangiare' a seconda di quello che si mangia, e non c'è un verbo diverso per 'camminare' a seconda di dove si cammina. Così, non c'è un verbo diverso per 'lottare' o 'combattere' a seconda di ciò contro cui si lotta o si combatte. L'intero linguaggio si regge sulle metafore. Le gambe dei tavoli e delle sedie si chiamano così per metafora: non per insinuare che quei mobili siano esseri animati, ma solo per non dover creare altre parole apposta. E se andare significa 'spostarsi', poi per metafora lo si usa anche in espressioni come andare meglio o andare a male, senza che ci sia l'ombra dell'intenzione di esprimere uno spostamento nello spazio. Quando diciamo di avere letto nella mente di qualcuno non stiamo insinuando che costui abbia una mente libresca, ma stiamo solo usando un verbo già disponibile per esprimere il
Quesito: Alcuni lettori chiedono se esista il termine pedonabilità, se sia più corretto di pedonalità, e se pedonale e pedonalizzato siano sinonimi o abbiano signi􀀖cato diverso. Una speci􀀖ca curiosità è se "in merito alla frequenza di... more
Quesito:
Alcuni lettori chiedono se esista il termine pedonabilità, se sia più corretto di pedonalità, e se pedonale e
pedonalizzato siano sinonimi o abbiano signi􀀖cato diverso. Una speci􀀖ca curiosità è se "in merito alla
frequenza di ingressi in un negozio" sia più opportuno dire alta pedonalità o alta pedonabilità.
Queste porzioni di testo che veicolano impliciti di contenuto sensibile costituiscono ciascuna una percentuale precisa dell’estensione complessiva del testo (misurata in caratteri); e quindi la loro somma costituisce la porzione di testo... more
Queste porzioni di testo che veicolano impliciti di contenuto sensibile costituiscono
ciascuna una percentuale precisa dell’estensione complessiva del testo
(misurata in caratteri); e quindi la loro somma costituisce la porzione di testo che
è devoluta a implicitare contenuti non bona fide veri né già condivisi dai destinatari.
Vedremo fra poco, in estrema sintesi, come si è proceduto per misurare tale
porzione in ogni testo.
Quantificare la porzione di testo che implicita contenuti sensibili può diventare
utile per lo studio della variazione fra tipi testuali, che è l’oggetto di questo
volume. L’ipotesi che la codifica implicita di contenuti sensibili sia funzione degli
intenti persuasivi candida questa prassi linguistico-pragmatica a diventare un parametro
caratterizzante i testi persuasivi; o meglio, caratterizzante la persuasività di
un testo, per cui, in linea di principio, quanto maggiore è la percentuale di impliciti
sensibili in un testo, tanto più alta ci dovremo aspettare che sia la posizione di quel
testo su una ipotetica scala di persuasività, intesa sia come intensità dell’intento
persuasivo, sia come concreta efficacia persuasiva. Su questa ipotesi, abbiamo condotto
un’analisi di alcuni diversi tipi testuali all’interno di un corpus pilota.
Tutti hanno assistito (e molti partecipato) al pandemonio mediatico scatenato dalla scelta di Giuseppe Conte, durante il messaggio alla nazione di venerdì 10 aprile, di "fare nomi e cognomi" degli avversari politici colpevoli di aver... more
Tutti hanno assistito (e molti partecipato) al pandemonio mediatico scatenato dalla scelta di Giuseppe Conte, durante il messaggio alla nazione di venerdì 10 aprile, di "fare nomi e cognomi" degli avversari politici colpevoli di aver "falsamente e irresponsabilmente" diffuso notizie relative al Mes. A contrappeso dell'ampio fronte degli entusiasti, che si compiacciono di avere un premier così chiaro e deciso, si sono levati gli scudi non solo dei diretti interessati, ma anche di giornalisti tendenzialmente super partes, come Enrico Mentana, e persino di rappresentanti della sinistra più estrema. Qual è il punto che ha spaccato l'opinione pubblica? La scelta, che lo stesso Conte ha volontariamente rimarcato, di dichiarare che stava parlando di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. La scelta, cioè, di essere esplicito. Il bailamme che ne è seguito mostra nitidamente come il discorso politico a cui siamo abituati abbia fatto dell'abitudine all'implicito una delle sue chiavi di volta. Studiando il mascheramento di contenuti nella comunicazione politica come Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda (www.oppp.it), osserviamo quotidianamente che essere impliciti riserva notevoli vantaggi ai politici: per una serie di ragioni cognitive che affondano le radici nella nostra storia evolutiva, noi esseri umani siamo portati a ridurre il nostro senso critico davanti a contenuti impliciti, che tendiamo ad accettare come veri, finendo a volte anche per sentirli come conclusioni a cui siamo giunti da soli (vedi E. Lombardi Vallauri, La lingua disonesta, Il Mulino 2019). Insomma, l'implicitezza è una strategia un po' truffaldina che riserva tanti vantaggi e pochi rischi, a cui i politici-più o meno consapevolmente-ricorrono spesso.
Ingrid Colanicchia, che ringrazio per lo stimolo dialettico, introduce diverse considerazioni critiche [http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-sessismo-c%e2%80%99e-e-si-vede-anche-se-qualcuno-lo-nega/] e cita alcune fonti... more
Ingrid Colanicchia, che ringrazio per lo stimolo dialettico, introduce diverse considerazioni critiche [http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-sessismo-c%e2%80%99e-e-si-vede-anche-se-qualcuno-lo-nega/] e cita alcune fonti importanti e molto note sulla condizione della donna nella comunicazione pubblica e in particolare in quella legata all'educazione in Italia. Per quanto riguarda invece la tesi che vuole dimostrare riguardo al mio intervento, basa la sua argomentazione su alcuni assunti, poco resistenti a una breve analisi, che possiamo così riassumere e commentare:

1. Siccome siamo in un contesto in cui molte cose in cui è rappresentata una donna come oggetto del desiderio sono sessiste, allora tutte le cose in cui è rappresentata una donna come desiderabile sono sessiste. Si noti infatti che il sessismo dell'immagine considerata non è da Colanicchia argomentato in sé, ma è presentato come prodotto dal "contesto", cioè dall'humus culturale da cui il nostro immaginario e le nostre rappresentazioni socio simboliche traggono alimento. Questo atteggiamento però è circolare, perché se ogni immagine sessuale in sé non sessista si giudica sessista perché ce ne sono altre così, perfino un contesto di quasi tutte immagini in sé non sessiste finirebbe per essere giudicato sessista, e praticamente per definizione nessuna immagine sessuale potrebbe più non essere sessista. Figuriamoci un contesto come il nostro in cui, oltre a immagini non sessiste come questa, ce ne sono anche moltissime che sono sessiste per davvero: diventa veramente impossibile non giudicare sessiste micromega-micromega-online » Risposta a 'Il sessismo c'è e si vede. Anche se qualcuno lo nega'-V...
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-parole-della-laicita-sessista-non-coincide-con-sessuale/ Esaminiamo ancora una parola che diffonde pregiudizi: sempre più spesso, ciò che è semplicemente sessuale viene fatto passare per... more
http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-parole-della-laicita-sessista-non-coincide-con-sessuale/

Esaminiamo ancora una parola che diffonde pregiudizi: sempre più spesso, ciò che è semplicemente sessuale viene fatto passare per sessista. Ad esempio (ma basta sfogliare i giornali per trovarne altri), il 19 febbraio l'edizione siciliana di Repubblica titolava un articolo così: Ragusa, pubblicità sessista per uno scooter: pioggia di proteste.[1] Oltre a Repubblica, hanno dato la notizia con le stesse parole, e in particolare usando tutte il termine sessista, decine di grandi e piccole testate online. Si trattava di questo cartellone: Una donna seminuda a bordo della moto, accanto a uno slogan volgare. Il sindaco diffida l'azienda e invia un esposto all'istituto di autodisciplina. Indignazione sui social, spiega l'autrice dell'articolo. Tutto abbastanza vero, compreso il fatto che lo slogan è da molti percepito come volgare, perché riferito esplicitamente al sesso. In che senso sessuale significhi volgare, e a quale grado di esplicitezza sessuale inizi il volgare, è ovviamente questione di gusti e di tradizioni; ma è certo che nella nostra particolare civiltà quel che è sessuale è tuttora dai più considerato goffo e di cattivo gusto. Per questo a molti il cartellone non sembra spiritoso, come accadrebbe se la battuta riguardasse qualsiasi altra cosa, ma appare volgare, perché riguarda il sesso. Tuttavia, a leggere l'articolo, sembra che ci sia un po' di confusione non solo da parte di chi lo scrive, ma anche dell'amministrazione pubblica che è intervenuta:
The implicit transmission of contents in a message is one of the most effective means of persuasive communication. In both commercial and political propaganda, discursive strategies such as presuppositions, implicatures and... more
The implicit transmission of contents in a message is one of the most effective means of persuasive communication. In both commercial and political propaganda, discursive strategies such as presuppositions, implicatures and topicalisations (which we propose to recast as implicit communicative devices) are frequently used. This trend may hinge on the fact that these strategies conceal the actual communicative intention of the speaker (implicature) or his responsibility for the truth of the content conveyed (presuppositions and topicalisations). The paper proposes a reflection on the use of presuppositions, implicatures and topicalisations to achieve persuasive aims in communication. A discussion will be devoted to the cognitive constraints underlying the brain response to the processing of these categories, as well as to their influence on the receiver’s mental representation of the discourse model.
In democracy (and free market) the actual power of choice enjoyed by individuals is reduced by persuasive practices. The paper focuses on one of them: linguistic implicits when used as a strategy to reduce epistemic vigilance on conveyed... more
In democracy (and free market) the actual power of choice enjoyed by individuals is reduced by persuasive practices. The paper focuses on one of them: linguistic implicits when used as a strategy to reduce epistemic vigilance on conveyed information, ensuring acceptance of questionable or even false contents by addressees. The evolutionary and cognitive bases for this are briefly explored. Examples of implicits of content (implicatures and vague expressions) and implicits of responsibility (presuppositions) when exploited for persuasion in political speeches, social network posts by politicians and printed propaganda are given. The article proposes that widespread awareness of this phenomenon should be one of the indispensable ingredients for authentically democratic cohabitation.
Available here: https://authors.elsevier.com/a/1aXo9_ZUyhKk2 The paper reports an experiment aimed at verifying the performance in the pronunciation of foreign sequences (in Italian, English and invented words) by Japanese in... more
Available here: https://authors.elsevier.com/a/1aXo9_ZUyhKk2


The paper reports an experiment aimed at verifying the performance in the pronunciation of foreign sequences (in Italian, English and invented words) by Japanese in preschool, school and adult age. The results show that progress through age, even for the same phonetic sequences, is greater in English words, suggesting that the word, rather than the phonetic sequence, is the language unit that speakers learn to pronounce correctly. It is proposed that there may be a minor disturbing role of the katakana syllabic writing, which causes a slight decrease in the performance of school-age children. A strong interference is observed from the most frequent English loanwords, which leads to pronouncing the original English word with the same adaptation it receives in Japanese phonology.
Una nostra lettrice, traducendo dall'inglese un testo sulla grande quantità di plastica che finisce nei mari, si trova davanti al problema di come tradurre l'espressione plastic footprint.

Qui la  risposta.
The paper reports an experiment aimed at verifying the performance in the pronunciation of foreign sequences (in Italian, English and invented words) by Japanese in preschool, school and adult age. The results show that progress through... more
The paper reports an experiment aimed at verifying the performance in the pronunciation of foreign sequences (in Italian, English and
invented words) by Japanese in preschool, school and adult age. The results show that progress through age, even for the same phonetic
sequences, is greater in English words, suggesting that the word, rather than the phonetic sequence, is the language unit that speakers
learn to pronounce correctly. It is proposed that there may be a minor disturbing role of the katakana syllabic writing, which causes a slight
decrease in the performance of school-age children. A strong interference is observed from the most frequent English loanwords, which leads to pronouncing the original English word with the same adaptation it receives in Japanese phonology.

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Sono in corso diverse guerre per il controllo dell’italiano. Da sempre, chi riesce a controllare la lingua decide in buona parte ciò che penserà la gente. Oggi, nell’epoca dei social network, intervenire non è piú il privilegio di pochi... more
Sono in corso diverse guerre per il controllo dell’italiano.
Da sempre, chi riesce a controllare la lingua decide in buona
parte ciò che penserà la gente. Oggi, nell’epoca dei social
network, intervenire non è piú il privilegio di pochi opinion
leader, ma chiunque, anche da incompetente, può partecipare
e vincere delle battaglie. Questo libro affronta il modo
in cui gli italiani si pongono rispetto alla «difesa dell’italiano
dall’inglese», e riguardo alle battaglie sul presunto sessismo
del lessico e della grammatica. La sua tesi centrale è
che per decidere su tali questioni non basti avere delle forti
preferenze ideologiche, ma occorra una competenza non
superficiale sul funzionamento della lingua, e perciò sui
veri modi in cui essa influenza il nostro modo di pensare.
Questo libro sostiene l'ipotesi non ovvia che la «morale per eccellenza», cioè quella che riguarda il sesso, sia una delle cose in cui la nostra civiltà è progredita di meno negli ultimi 4000 anni. Chi ritiene di non avere limiti non... more
Questo libro sostiene l'ipotesi non ovvia che la «morale per eccellenza», cioè quella che riguarda il sesso, sia una delle cose in cui la nostra civiltà è progredita di meno negli ultimi 4000 anni. Chi ritiene di non avere limiti non oserebbe mai farlo in piú di due. Tutte le coppie ostentano una stretta monogamia, e ogni contatto con terzi è considerato un tradimento che può distruggere il rapporto. Anche i giovanissimi vivono sostanziali ma-trimoni di reciproca sorveglianza. E mentre tutti si di-chiarano libertari, di fatto si danneggia continuamente la reputazione delle persone a partire dai loro comporta-menti sessuali. Nel profondo la morale sessuale è mutata pochissimo, e per alcuni aspetti sta tornando indietro, come segnalano molti intellettuali. Il libro si rivolge a coloro che sono perplessi rispetto al perdurante ruolo degli insegnamenti cattolici nel condizionare la menta-lità comune, e rispetto ai principî cui obbedisce tuttora il legislatore in materia di diritto di famiglia. E viene incontro ai figli-e alle figlie-di genitori piú o meno di-chiaratamente repressivi. Ma soprattutto, vuole indurre a dubitare della propria convinzione di essere liberi.
La democrazia è un sistema politico in cui le persone hanno in teoria potere di scelta su chi delegare; allo stesso modo, il libero mercato è un sistema economico in cui le persone potrebbero scegliere che cosa comprare. Di fatto, la... more
La democrazia è un sistema politico in cui le persone hanno in teoria potere di scelta su chi delegare; allo stesso modo, il libero mercato è un sistema economico in cui le persone potrebbero scegliere che cosa comprare. Di fatto, la competizione politica e quella commerciale si giocano ormai in gran parte sulla limitazione di tale potere. Questo libro si occupa delle strategie linguistiche della persuasione, che sfruttano soprattutto i contenuti impliciti. A illustrare il tema, l’autore porta una ricca messe di esempi attuali e meno attuali di pubblicità commerciali e di discorsi politici, di cui si svelano logiche e meccanismi cognitivi. Alla luce dei recenti studi sul cervello, si chiarisce poi perché è più facile far passare per vero un contenuto falso se, invece che parlarne esplicitamente, lo si dà per presupposto o si induce chi ascolta a dedurlo da sé.
Qual è il ruolo dei suoni delle parole nella formazione dei significati? Tutti sanno che onomatopee come miao, botto e tic tac possono imitare suoni ambientali. Ma molte lingue usano ideofoni come zigzag, lemme lemme o quatto quatto per... more
Qual è il ruolo dei suoni delle parole nella formazione dei significati? Tutti sanno che onomatopee come miao, botto e tic tac possono imitare suoni ambientali. Ma molte lingue usano ideofoni come zigzag, lemme lemme o quatto quatto per raffigurare eventi non sonori, come movimenti o stati d'animo. Persino parole comuni come scivolare o incespicare, qui o là riproducono col suono certi aspetti delle realtà che designano. Questo fenomeno prende il nome di fonosimbolismo. Il libro lo affronta in prospettiva sia storico-teorica che descrittiva e sperimentale, dalle formulazioni più antiche alle neuroscienze, offrendone la prima trattazione organica in ambito linguistico.
Research Interests:
Moral dilemmas have long been debated in moral philosophy without reaching a definitive consensus. The majority of value pluralists attribute their origin to the incommensurability of moral values, i.e. the statement that, since moral... more
Moral dilemmas have long been debated in moral philosophy without reaching a definitive consensus. The majority of value pluralists attribute their origin to the incommensurability of moral values, i.e. the statement that, since moral values are many and different in nature, they may conflict and cannot be compared. Neuroscientific studies on the neural common currency show that the comparison between allegedly incompatible alternatives is a practical possibility, namely it is the basis of the way in which the agent evaluates choice options. Indeed, both in economic and moral decision-making, the value of options is represented and directly compared in the ventromedial prefrontal cortex. Therefore, we contend that moral dilemmas do not originate from value incommensurability and, on the basis of the neuroscientific discoveries on the neural currency, we derive the implications for the philosophical debate on moral dilemmas. We also provide a possible connection between the experience of moral dilemmas and their neural representation: one of the causes of the individual’s indecision is the neural tie, i.e. the condition in which two options have the same value at neural level, and her regret could be due to the motivational force of the rejected option that is still signalled by affective processes in the brain. We apply this interpretation and the common currency hypothesis to vocational decisions and propose that, although from the agent’s perspective the options are qualitatively different, they may be nevertheless equivalent at neural level. This can be seen as a reason for downgrading the importance commonly attributed to the risk of making the “wrong choice”.