Il catechismo esiste ancora. Nelle parrocchie italiane, decine di migliaia di bambini ricevono ammaestramenti cattolici per accedere alla prima comunione e poi alla cresima. Le loro menti plasmabili e fiduciose accolgono idee che essi identificheranno lungamente con la parte più intima della loro anima, e che gli costerà molto abbandonare (se ci proveranno).
Molte di queste idee sono così difficili da mandar giù, che è indispensabile somministrarle quando le persone sono ancora bambine. Ma qualche ragazzino meno fiducioso, o forse solo impertinente, talvolta finisce per domandare (magari con parole più semplici): “ma come è possibile che Dio sia uno e trino? Se è uno non è trino, e se è trino non può essere uno!” Oppure: “Gesù era vero uomo e vero Dio: come faceva? Se era Dio, pur essendo uomo, era completamente diverso da tutti gli altri uomini. Altro che condividere in tutto fuorché nel peccato la nostra natura umana! Per esempio, non poteva aver paura di cessare completamente di esistere, perché Dio è immortale… e conosceva la risposta a tutte le domande su cui noi brancoliamo nel buio… Quindi dire che era vero uomo è almeno… impreciso!”.
Oppure ancora: “Cosa vuol dire che nasciamo col peccato originale? Perché chiamiamo “peccato” e pensiamo che possa condannarci all’inferno, qualcosa che non abbiamo fatto esistere noi, ma Adamo (che non sono io) e Dio (che è tanto buono)? Come possiamo essere peccatori senza avere ancora né fatto né pensato niente? Che senso ha dire che il battesimo ci salva da un peccato che non abbiamo commesso?”
Oppure: “Ma se Dio è onnipotente, onnisciente e infinitamente buono, perché permette (anzi provoca, in quanto creatore) la sofferenza degli innocenti, le calamità naturali, malattie atroci, e tante altre cose brutte di cui gli uomini non hanno nessuna colpa? Siamo proprio sicuri che Dio è onnipotente e infinitamente buono? Non è come se… si vantasse un po’ troppo?”
Si potrebbe continuare a lungo con esempi del genere, perché la fede cristiana propone di accettare per vere molte cose che contraddicono apertamente la ragione. Il sacerdote o il catechista intellettualmente onesto viene messo profondamente in crisi da questioni del genere, naturalmente ben prima che gliele ponga qualche ragazzino. Ma spesso, quando esplicite domande lo mettono nell’angolo, di fatto si rifugerà in una collaudata risposta più o meno così: dobbiamo essere più umili, non dobbiamo pretendere di capire tutto con i nostri criteri di giudizio; dobbiamo affidarci al Signore, accettare il profondo mistero della natura di Dio (vedi uno e trino) anche se non lo capiamo, avere fiducia nel suo immenso e misterioso amore anche se sfugge alla nostra comprensione (vedi terremoti, cancri eccetera)”.
Questo richiamo all’umiltà piega la parola a un senso falso, e piuttosto disonesto. Infatti l’atteggiamento che viene proposto (la fede nell’irragionevole) è di gran lunga meno umile di quello che viene screditato (la logica applicata ai fatti certi). Vediamo perché: esaminiamo prima l’atteggiamento della ragione e poi quello dell’umile “affidarsi”.
L’approccio “ragionevole”, quello che diffida delle contraddizioni, e invece crede ai fatti accertabili e alle conseguenze logicamente deducibili, è intellettualmente impersonale. Chi lo assume non prova a erigere se stesso a criterio per giudicare cosa sia vero e cosa sia falso. Anzi, in questo atteggiamento il criterio per giudicare che cosa sia vero è tutto fuori di me, nei dati empirici e nell’opinione vastamente condivisa sulla qualità dei procedimenti logici adoperati. La natura della logica e del modo di procedere razionale sta proprio nell’essere intersoggettivi, condivisibili, accettabili da tutti. Nessuno, se non per metafora, può parlare della “sua logica personale”. Ancor meno, qualcuno può descrivere dei fatti oggettivi come “suoi”. I veri fatti, per definizione, sono indipendenti dal parere mio e di chiunque altro. Insomma, chi giudica della verità partendo dai fatti verificabili e traendone solo conseguenze logiche, chi si insospettisce di fronte alle contraddizioni tra fatti asseriti o tra princìpi, si comporta in modo umile, perché nella valutazione non inserisce le sue preferenze personali: si limita a constatare che qualcosa (l’essere sia uno che tre, l’essere sia buono che spietato) si presenta in un modo che contrasta con i criteri che di norma tutti adottano (e che i fatti suffragano) per controllare se qualcosa è vero o falso. Chi giudica con la ragione non si mette in primo piano, non fa di testa sua, non si ritiene più importante di nessun altro, è solo l’umile notaio di oggettive concordanze e discrepanze; o comunque di cose che appaiono concordare o contraddirsi rispetto a un modo di giudicare che non ha inventato lui, ma che l’intera umanità verifica e applica ovunque e in continuazione. Sottomettersi alla logica è come sottomettersi alla legge. La logica è uguale per tutti, e piegarsi ad essa è atto di umiltà.
L’altro atteggiamento consiste nel dire: mettiamo da parte i fatti, e mettiamo da parte anche ogni controllo sulla serietà e affidabilità dei procedimenti che usiamo per ragionare. Fidiamoci piuttosto di quello che dicono questi testi scritti molti secoli fa e raccolti in questo libro. E visto che, come ogni testo, ammettono varie interpretazioni, fidiamoci dell’interpretazione che hanno deciso di darne i padri della tradizione culturale in cui siamo cresciuti noi. O per essere più precisi, non quelli di loro che hanno perso le guerre di religione (gli “eretici”), ma quelli che le hanno vinte e dunque hanno mantenuto fino ad oggi il controllo del magistero della chiesa. In altre parole, scegliamo l’opinione di casa nostra, quella che si tramanda nella nostra contea. Poco importa se è diversa da quella che tramandano altri popoli, e poco importa se contraddice i fatti e la ragione. Insomma, diamoci ragione da soli, senza cercare di sapere se l’abbiamo davvero. Così, sotto l’apparenza di “non pretendere di essere capaci di giudicare con i nostri mezzi” (la ragione), ciò che viene proposto è di “affidarsi” a un altro modo di giudicare. Il quale però risulta meno sobriamente, meno universalmente, e dunque in ultima analisi meno umilmente motivato. Una pura e semplice preferenza, che si concede il lusso di non dare motivazioni, che non si piega a dimostrare le sue eventuali ragioni, ma pretende di essere accettata senza dare spiegazioni. Se questa è umiltà…
Però il richiamo ad essere umili potrebbe anche essere inteso in modo leggermente diverso. Tenendo distinta la chiesa dal ragazzino perplesso, il parroco può dirgli “sii umile, cioè rinuncia a ragionare con la tua testa, e accetta che la tradizione abbia ragionato per te. Non pretendere di fare da solo, e lasciati dire da noi ciò che devi credere. Anzi, spingi la tua umiltà fino ad accettare la prevaricazione intellettuale, cioè fino ad accettare come vero non solo ciò che alla ragione (anche tua) appare vero, ma perfino ciò che ti appare falso”. La chiesa in questo caso è tutto meno che umile, anzi sceglie il ruolo dell’estrema arroganza, cioè quello di chi asserisce e poi pretende di essere creduto senza dare spiegazioni; ma bisogna ammettere che nei confronti del ragazzino questo è davvero un richiamo all’estrema umiltà: “rinuncia alla parte migliore di te stesso e lascia spadroneggiare noi sulla tua coscienza.” Bene, a questo punto il ragazzino potrà sì “credere” ed essere umile, ma per restare umile dovrà costringersi al silenzio e alla sordità. Perché non appena avrà fatto sue le opinioni non motivate della chiesa, se le proporrà a qualcun altro (amici, poi un giorno figli, o allievi), poiché non potrà motivarle sarà colpevole della stessa, estrema, arroganza intellettuale. La cosa è particolarmente grave nei confronti dei figli. “Passargli”, invece che la rettitudine di giudizio, la propria fede, significa infilare nella loro vita qualcosa che trova la sua motivazione solo nella nostra biografia.
E non appena il nostro ragazzo/uomo che è stato bambino al catechismo, ascoltando qualche idea diversa, la scarterà senza giudicarla con criteri onesti, ma preferirà semplicemente le idee che ha contratte nell’infanzia, anziché umile sarà superbo. Peggio ancora se orienterà il suo voto politico o referendario a favore di leggi basate su queste idee. “Siate umili” finirà per significare: “non cercate personalmente la verità, ma prendete quella che abbiamo scelto noi per voi; e dopo che noi vi avremo indottrinati, restate fermamente persuasi di essere i depositari della verità. Non vi lasciate deviare dai fatti concreti, né da ragionamenti corretti; siate forti e assoluti nell’anteporre la nostra/vostra visione di che cosa è Vero e che cosa è Giusto, e se vi riesce fatela prevalere imponendone le conseguenze a tutti.”
E allora, l’umiltà non è più una virtù.
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega