Fino a pochi anni fa, negro non era di per sé un’offesa. Come qualsiasi altra parola, poteva entrare in enunciati offensivi o non offensivi, ed era il termine più frequente per designare le persone di popolazioni di origine africana che hanno la pelle molto scura (si veda l’intervento di Federico Faloppa su La Crusca per voi dell’aprile 2006). Si opponeva per esempio a bianco, che designava gli oriundi dell’Europa dalla carnagione chiara: quella che i bambini disegnano rosa. Chi è nato in Italia fino alla metà degli anni Ottanta ha imparato negro come una parola non offensiva, ma meramente descrittiva.

All’inizio degli anni Novanta si è cominciato a pensare che il termine poteva essere di per sé offensivo. Molto ha influito l’ideologia del politically correct, che venendo dagli Stati Uniti ha istituito il parallelo fra l’inglese nigger e il nostro negro, suggerendo di adottare al suo posto nero a imitazione del neutrale black. Poco ha importato che negro non fosse in italiano un termine ostile e intenzionalmente offensivo come nigger in inglese. L’accusa di razzismo è molto grave, ed è molto difficile scagionarsene,[1] poiché si tratta di un sospetto gettato non solo sulle azioni ma anche sui pensieri, per i quali è impossibile dimostrare che non ci sono.

Questo ha fatto sì che accusare qualcuno di razzismo perché usava la parola negro fosse molto facile, e che dichiararsi intimamente corretti servisse a poco, di fronte alla presenza di questa sorta di “tangibile prova” della colpevolezza, costituita dall’effettivo uso della parola. Piuttosto che protestare la propria innocenza e il proprio diritto a continuare a usare quella parola senza offendere nessuno, tutti hanno preferito rinunciare a usarla.

Così è successa una cosa abbastanza stupida: negro è passato dal non essere offensivo, ad essere proibito perché offensivo; e paradossalmente è stata proprio la proibizione a renderlo (forse definitivamente) una parola offensiva. Sapendo questo, si può provare il desiderio di non abbandonare negro; come si può cercare di non abbandonare riunione per meeting e posto per location: non a tutti piace fare qualsiasi cosa facciano gli americani. A molti del resto pare offensivo proprio il fatto di evitare la parola negro, come se ci fosse qualcosa di male nell’essere negri. Per me, che la usavo prima della sua proscrizione, la parola designa in modo neutrale molte persone; e mi sembra di offenderle evitando di chiamarle con il loro nome. Allo stesso modo, preferisco dire mio cugino è cieco, perché dicendo mio cugino è non vedente mi sembra di implicare che in mio cugino ci sia qualcosa di brutto di cui vergognarsi. Del resto, se qualcuno invece di chiamarmi professore usasse un eufemismo (chessò, operatore didattico), comincerei a preoccuparmi perché sarebbe un segno che professore sta diventando epiteto offensivo, e cioè che io vengo disprezzato.

Ci sono paralleli storici. Anche ebreo è stato usato da molti con intenzioni denigratorie, in enunciati (e purtroppo non solo enunciati) ostili e pieni di disprezzo. Ma sarebbero contenti gli ebrei se, per evitare di chiamarli con un termine che è stato usato anche in modo ostile, si escogitasse un nuovo termine? Gli piacerebbe pensare che ebreo, cioè la parola che li ha sempre designati, sia definitivamente considerata un’offesa? Ovviamente no; e forse il fatto che gli ebrei siano un gruppo più forte dei negri può spiegare che questo non sia accaduto.

Tuttavia, queste cose sono molto difficili da spiegare. E quindi anche chi è ben consapevole di questo paradosso, e si vergogna un po’ di evitare negro come se designasse una condizione turpe, farà bene a sostituirlo sempre con nero o di colore, salvo quando proprio non c’è nessuna possibilità che qualcuno ne sia disturbato. Ormai si può usare solo fra persone che ricordano anche il senso non offensivo della parola, e non adottano in automatico i dettami più recenti del politically correct. Altrimenti si rischia di dover dare faticose dimostrazioni del proprio non-razzismo. O, più grave, si rischia di ferire la sensibilità di coloro che, a torto o a ragione, ci sentono ormai un termine violento e offensivo.

C’è una seconda causa dello screditamento di negro, che non è la moda anglosassone. In molti casi, quello che è offensivo non è la parola, ma la scelta di usarla in un determinato contesto. Ovviamente sporco negro è offensivo, ma a causa dell’aggettivo; tanto che sporco nero non è affatto migliore. Inoltre, il contenuto dell’enunciato può essere più o meno ostile. Non rivela un atteggiamento razzista chi dice: me ne vado via per un weekend in barca con quel mio amico negro che hai conosciuto a casa mia; mentre a poco serve usare la parola “giusta” se uno dice: sbattete fuori quel nero, non voglio gente di colore nel mio locale.

In casi del genere, è chiaro che ad essere razzista non è la parola in sé, ma il contesto. Tuttavia, ci sono anche contesti che traggono in inganno i più, facendogli credere che l’offesa stia proprio nella parola. Sono quei contesti in cui non ci sono altre parole a produrlo, eppure sentiamo un effetto di offesa. Vediamo perché.

Se io dico: gioco spesso a scacchi con un vicino di casa negro, è possibile che qualcuno ci senta un’offesa. Ed è possibile che gli sembri di sentire l’offesa nella parola negro. Ma l’offesa, se c’è, è più sottilmente nel fare riferimento alla razza in modo poco pertinente (che c’entra la razza a cui si appartiene, con il giocare a scacchi?). Cioè, ci può essere un animo razzista nel riferirsi alla razza senza necessità, che rivela la tendenza a dare troppa importanza alla diversità di razza fra le persone. Qualcuno dunque potrebbe avere avvertito una punta di razzismo anche nell’esempio, dato poco sopra, dell’amico e del weekend in barca: lì però è più facile vedere il riferimento alla razza come motivato, perché utile a identificare quella persona fra i miei vari amici; mentre qui è proprio gratuito e quindi, per così dire, potrebbe essere intrinsecamente razzista. Allora, attenzione: anche qui l’effetto di razzismo che avvertiamo è dovuto al contesto che rivela l’atteggiamento generale del parlante, e non – come può sembrare ai più – alla parola negro. Infatti resta lo stesso se diciamo:  gioco spesso a scacchi con un vicino di casa di colore. Ma negro, e non di colore, è stato usato per decenni, e quindi si è visto incolpare per una colpa che non era sua: ha fatto da parafulmine per il razzismo latente nel parlare di molti. C’è da aspettarsi che prima o poi anche nero e di colore, benché innocenti, vengano incolpati del razzismo che in realtà sta altrove, e a loro volta sostituiti. Come disabile, che poco dopo avere sostituito handicappato sta cominciando a non bastare più, cosicché i più “attenti” sentono il bisogno di dire diversamente abile.

[1] Si veda, esemplarmente, la vicenda narrata da Philip Roth in La macchia umana.

Articolo originariamente pubblicato su MicroMega

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