Da qualche decennio nessuno mette in discussione che una delle cose più belle da fare nel tempo libero sia andare nella natura selvaggia. Quella cioè che non è opera dell’uomo, ma anzi offre all’uomo una sorta di paragone, uno stato prima-di-lui e senza-di-lui, con cui confrontarsi e da cui imparare qualcosa. Si è d’accordo, in linea di principio, che la natura (selvaggia e incontaminata) sia bellissima. Personalmente, credo sia anche un’esperienza importante per tornare a dare alle opere dell’uomo il ruolo che gli spetta sul pianeta. Troppe persone vivono come se il sistema di riferimento del nostro vivere fossero la società umana, la cultura, i tanti manufatti. E giudicano queste cose dal loro interno, senza rendersi conto che il loro vero significato si comprende solo osservando in che rapporto stanno con la realtà nel suo insieme, cioè con la natura in cui si sono inserite, il pianeta, l’universo stesso. Ad esempio, le moto da acqua sembrano piene di senso per chi le consideri nel sistema di riferimento dei veicoli creati dall’uomo e in quello del business da intrattenimento; ma appaiono schifose a chi le consideri nel sistema di riferimento del paesaggio marino, che è più importante sia perché preesiste di molti milioni di anni ai veicoli e al business, sia perché fa parte delle condizioni ecologiche senza le quali questi non avrebbero mai cominciato né potrebbero continuare a esistere.
Ebbene, ora si va tutti nella “natura”, intendendo non l’erba delle aiuole di città, ma proprio la natura selvaggia. La parola natura, in espressioni come parco naturale, percorso natura, esperienza della natura, viene intesa e capita come “natura selvaggia”, “incontaminata”. Ma questo modo di intendere la parola è spesso fuorviante, perché la natura di cui si tratta non è più davvero selvaggia. Di fatto, che cosa accade? Molte amministrazioni hanno preso l’abitudine di guidare le persone in appositi luoghi, che tipicamente sono proprio i più belli del loro territorio, mediante pubblicità, cartelli di indicazioni, sentieri attrezzati, tabelloni contenenti le mappe della zona e i profili delle montagne con relative altitudini, informative sulla fauna, la flora, il suolo. Risultato: proprio i luoghi più notevoli e selvaggi sono snaturati, perché addomesticati. Al punto che ormai alle nostre latitudini la natura selvaggia è un paesaggio in via di estinzione.
Invece di fare l’esperienza della natura selvaggia, il viandante fa l’esperienza della natura come pretesto per un intervento che ha qualcosa di culturale-istruttivo e molto di pubblicitario. Ogni esibita manifestazione di amicizia da parte di chi amministra la “risorsa naturale” è anche una piccola vanteria e un tentativo di figurare il più possibile. Insomma, per asservirla a modesti interessi anche la natura selvaggia viene ridotta a un prodotto dell’uomo.
Invece, l’esperienza della natura veramente selvaggia è significativa e insegna qualcosa – che potrebbe insegnare a tutti, se gli se ne desse la possibilità – proprio perché, fra le altre cose:
- I luoghi completamente privi della presenza dell’uomo emanano un fascino che intendere non lo può chi non vi si immerge concretamente. Ma questo fascino si sgonfia se il luogo “selvaggio” è accuratamente pavimentato, pieno di cartelli, spiegazioni, raccomandazioni, suggerimenti su quali sono le cose belle a cui rivolgere l’attenzione, e perfino su quali siano le sensazioni da provare. Il risultato è che le persone vanno nella “natura”, rischiano di provare le stesse cose che se fossero andate in un museo senza il tetto, e di restare con la sensazione che la realtà non contenga niente di veramente alternativo agli ambienti fabbricati dall’uomo.
- Muoversi nella natura selvaggia (trovare le strada, riconoscerne sulla carta topografica i segni per orientarsi) non è facile, e insegna che la natura è severa con chi non la conosce e non ne rispetta il modo di funzionare. Insegna che gli sbagli si pagano con la fatica. Invece insegna ben poco se il luogo “selvaggio” è solcato da passerelle in elegante legno di falegnameria verniciato all’anilina (perché restino visibili le venature “naturali”) o da ampi sentieri attrezzati, e se la via da seguire è continuamente indicata da cartelli con scritte. Così il paesaggio naturale si trasforma nel percorso di un gioco da tavolo; il canyon selvaggio diventa un giretto per il centro commerciale, e cambia poco che invece delle vetrine si guardino le rocce. Certo, senza le istruzioni facilitanti le cose sono più impegnative, ma avventurarsi in un ambiente intatto procura la scossa meravigliosa della scoperta, cioè di essere noi a scoprirlo; gioia che neanche immagina chi viene guidato in un luogo dove tutto gli ricorda che il suo passaggio è previsto, regolato, scontato, e dove le opzioni di movimento sono impostate in anticipo come in un esteso gioco dell’oca.
Si potrà obbiettare che in precise circostanze le facilitazioni sono dovute alla “necessità” di rendere sicuri luoghi che altrimenti sarebbero pericolosi. Esatto: sono luoghi pericolosi, la loro caratteristica è essere pericolosi. Rendendo facile percorrere un luogo che era pericoloso, lo si trasforma in un altro luogo. Quindi non si rende sicuro quel luogo, ma si abolisce quel luogo. Così nessuno può più percorrere quel luogo difficile, ma solo un nuovo luogo addomesticato. Non è questa la cosa da fare. La cosa da fare è che i luoghi difficili restino difficili, e percorribili solo da chi è bravo. Chi è meno bravo percorra i luoghi non difficili altrettanto belli – e non trasformati in un gioco dell’oca – oppure diventi bravo. E tutti i luoghi naturali restino quello che sono.
- Soggiornare, e soprattutto passare la notte, non solo le comode ore del giorno, nella natura selvaggia è arduo, e il corpo a corpo con essa fa capire quanto siamo fragili e limitati, se non ci trinceriamo dentro le costruzioni protettive che abbiamo inventato, e che però sono un’ennesima messa in scena, perché alterano il paesaggio trasformandolo in qualcosa di diverso. Quel vivido corpo a corpo non avviene se nel luogo selvaggio viene costruito il rifugio-ristorante dove l’amministrazione ti fa provare esattamente le stesse sensazioni che provi a casa in città, e con l’occasione tira su quattro soldi.
Per chi la ama, è avvilente vedere la natura selvaggia violata e sottomessa perché anche il cliente più improvvisato ci si trovi bene quasi come a casa sua. E in queste condizioni, che cosa resta da provare a chi non è improvvisato?
Non oso proporre che si torni a rispettare la natura selvaggia fino a smettere di trarne profitto vendendo piatti di polenta; anzi, credo che anche le polente dei ristoranti che si fanno chiamare “rifugi” siano una cosa buona, che fa piacere a molti; purché non colonizzino, come stanno facendo, i luoghi più notevoli e prima incontaminati. Però spero che qualche amministratore locale mi legga, e almeno tolga i cartelli, tolga i percorsi facilitati, tolga le spiegazioni su quanto è bella la natura; e la lasci essere bella per quello che è.
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega