Le parole della lingua sono gravate da componenti che ci impongono una visione del mondo molto di parte. Spesso questa visione ci danneggia, e arriva a impedirci (anche per tutta la vita) di vivere le cose per quello che sono.
Se diciamo Pia va con tutti, o è stata con Mario, quello che gli altri capiscono da predicati così generici (andare, stare) è quasi sempre l’accoppiamento sessuale. Questo avviene perché sanno che se si trattasse di qualsiasi altra attività nessuno sceglierebbe di usare verbi così vaghi da non dire niente, e la chiamerebbe direttamente con il suo nome: Pia parla con tutti, ha cenato con Mario. Se qualcosa non viene chiamato con il suo nome, è probabile che si tratti di sesso, perché di sesso non si può parlare nello stesso modo in cui si parla delle altre cose.
Non c’è una vera e propria proibizione che impedisce di parlare di sesso; peggio: c’è un dispositivo linguistico per cui, anche non riconoscendo nessuna proibizione, se proviamo a parlare di sesso non possiamo farlo come con tutto il resto. La ragione è che le parole che riguardano il sesso sono inquinate. Non si può usarle impunemente. Herbert Marcuse, in Eros e Civiltà, lamentava che “le parole che si riferiscono a questa sfera hanno un tono di sermone, o un tono osceno”. Il risultato è che, se vogliamo parlarne, non possiamo evitare di avallare anche noi la condanna del sesso: basta menzionarlo per partecipare al suo screditamento, che è contenuto in quasi tutti i termini che la lingua ci mette a disposizione per riferirsi ad esso.
Il veicolo più energico di questo screditamento è il ridicolo. Anche chi non si allinea a nessuna condanna morale del sesso, e anche chi vorrebbe proprio rifiutare di praticarne una denigrazione, non può fare niente per evitare il ridicolo che caratterizza le parole associate alle cose di sesso, specie le meno canoniche: per parlare di una situazione in cui si è più di due, non esistono termini senza connotazione ridicola, e si è costretti a usare orgia o ammucchiata, che designano la cosa aggiungendovi un senso di grottesco. Una semplice parola, non c’è. È come se per riferirci a un libro fossimo costretti a dire uno scartafaccio, per parlare di un bambino dovessimo per forza usare moccioso; come se non ci fossero camminare e mangiare, ma solo scarpinare e abbuffarsi. Che atteggiamento cretino avremmo nei confronti della realtà. Ebbene, l’abbiamo nei confronti del sesso. Il dileggio permea le parole di cui disponiamo, e non ci sono alternative a termini dalla connotazione grottesca come pompino; bocchino; a novanta gradi; a pecora; inchiappettare; inculare; fottere; posizione del missionario; sega, pugnetta; e così via. Per parlare di sesso, bisogna infangarlo e deriderlo. Le uniche alternative sono l’eufemismo (che è pur sempre diffamatorio, e di cui parleremo tra poco), oppure rifugiarsi nel lessico scientifico o dotto e di uso non comune, tipicamente con calchi diretti dal latino: coito, copula, eiaculazione, sodomizzazione, accoppiarsi, cunnilingus, fellatio. Anche questi tutt’altro che esenti dal grottesco, per la verità.
Molti dei termini che abbiamo citati sono anche considerati volgari, cioè appartengono al turpiloquio e il semplice pronunciarli equivale a offendere l’interlocutore, quando questi non è particolarmente aperto di vedute. Infatti mentre scrivo queste righe mi domando se Micromega si sentirà di pubblicarle: perché le cose che ho menzionato sono cose naturali e belle, ma le parole con cui le designiamo grondano offesa. Insomma, ai bambini si insegna a non adoperare quelle parole, e l’effetto è insegnar loro che il sesso è male. Senza fargli una scomoda e discutibile lezione di morale sessuofoba esplicita, gli si inculca in modo implicito, e quindi ancora più efficace, che il sesso è cosa sbagliata: ogni piccolo italiano, crescendo, deve poi trovare da solo il modo per costruire con esso un rapporto più sano di quello che precocemente gli instilla il lessico della sua lingua materna. Lo aiuteranno la natura e – però malamente – la proposta di sesso (almeno visivo) ormai onnipresente nella nostra civiltà.
La riprova del fatto che il linguaggio è impregnato di screditamento del sesso, si ha anche nel fatto che moltissimi termini ed espressioni di senso generale e di connotazione negativa hanno fra i loro significati ‘ricco di sesso’: una donna perduta, caduta in basso; un libro, un film sporco; fare porcherie, cose sudicie; il vizio; vizioso; perverso, pervertito, perversione; si è lasciata corrompere, un locale equivoco. L’emblema di tutto questo è che pensare male significa quasi sempre “pensare che ci sia di mezzo il sesso”. Al tempo stesso, termini positivi di senso originariamente generale prendono facilmente il senso di ‘esente da sesso’: praticare la virtù, una donna virtuosa, per bene; un pensiero innocente; un film pulito. Inversamente, molti termini di senso sessuale sono bell’e pronti per significare cose genericamente negative: coglione; pirla; bischero; cazzone; minchione; testa di cazzo; fottere, fottuto; inculare; fregare; e così via.
Per evitare tutto questo non resta che l’eufemismo. Il ruolo della donna che fa sesso a pagamento o comunque senza ritegno è il concetto per cui forse abbiamo creato più eufemismi.[1] Da troia a passeggiatrice, da hostess a buona donna, da intrattenitrice a cortigiana (ma ce ne sono molte decine), si tratta sempre di termini il cui senso primario sarebbe un altro, e che si usano per evitare di chiamare la cosa con un suo nome esplicito. Questo fatto naturalmente dice molto sulla sessuofobia della cultura che lo ha prodotto. Si usano gli eufemismi per ciò che non si ha il coraggio di nominare direttamente. Tipicamente per gli organi e i comportamenti sessuali: uccello, pisello, verga (anche cazzo era un eufemismo: viene dalla parola latina per ‘cagnolino’), le palle, gli Zibidei,… fica, fessa, gnocca, patata… scopare, trombare, chiavare… partono da tutt’altro significato. Ancora più “timide” sono espressioni comunissime che vengono usate molto spesso in senso sessuale: fare l’amore; andare a letto; un rapporto, consumare un rapporto, un matrimonio; farsi una persona, prendere qualcuno (da “davanti”, da “dietro”), il membro, l’organo, il lato B, il suo fondoschiena, i suoi attributi, che bel paraurti, che davanzale, farsi un solitario, e così via.
Ma l’eufemismo è solo l’altra faccia della medaglia della denigrazione. Segnala che la cosa è tanto brutta che è meglio non menzionarla nemmeno. Anche qui, l’effetto sui bambini è potente. Il linguaggio che acquisiscono quando sono ancora plasmabili e indifesi gli fornisce le categorie con cui interpreteranno la realtà, spesso per tutta la vita. Vedono che correre si può dire, e non c’è bisogno di aggirarlo con cose come “fare la gara” o “andare su strada”, mentre per l’atto sessuale sono stati inventati fare l’amore e andare a letto. Queste perifrasi gli insegnano, meglio di qualsiasi sermone (anche questo aveva in mente Marcuse) che il sesso è da evitare. Negli ultimi anni si è un po’ diffuso, forse anche grazie all’influsso inglese, fare sesso, che per le persone sensibili alle cose che stiamo dicendo ha proprio il vantaggio di essere al tempo stesso esplicito e neutrale. Ma queste stesse persone riescono a preferirlo agli eufemismi quando parlano con dei bambini?
Forse l’unica cosa per cui abbiamo una tendenza al camuffamento eufemistico paragonabile a quella per il sesso è la morte: è mancato, ci ha lasciati, si è spento, non è più fra noi, è andato in cielo, la prematura scomparsa, la sua dipartita, ha perduto suo padre…
Il che rivela – attraverso l’inquinamento delle parole – quanto la nostra civiltà si è infognata nello screditamento del sesso; mentre il sesso in realtà è piuttosto vita, che morte.
[1] Me lo fa notare Giovanni Gargani, che ringrazio.
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega