Che cosa intendiamo con “vacanze”? Usiamo comunemente questa parola in espressioni come: sono stanco, ho bisogno di un po’ di vacanza, oppure ah, vedo che ti dai alla vacanza!, o Con la testa sei già in vacanza!, significativamente al singolare, perché spesso la concepiamo come sinonimo di ‘riposo’, ossia di ‘non fare niente’. Ma è questo il suo vero senso? E soprattutto, questo senso del termine ci conviene, o interpretare così le vacanze rischia di farci perdere qualche cosa?
La parola ci arriva dal latino attraverso il francese vacance, ed è derivato del verbo vacare, cioè ‘essere privo di qualcosa’. In particolare, ha il senso di ‘essere privo dei propri impegni consueti’, quindi ‘avere tempo libero’. La radice è la stessa di vacuus, ‘vuoto’: la vacanza è un tempo vuoto, non già riempito da cose. Insomma, il vero senso della parola dice che si tratta di una potenzialità, del crearsi di occasioni, grazie al venir meno di occupazioni abituali (occupato infatti è proprio il contrario di vacante[1]): non è affatto necessario che questa libertà, questa potenzialità, debbano prendere la forma del non fare niente. Chi lo pensa sta equivocando.
Come è noto, questo equivoco ha già travolto la parola ozio: fin dai banchi di scuola si impara che per i nostri antichi progenitori l’otium non era la nullafacenza, ma il tempo dedicato alle cose elevate, perché libero dalle minuzie volgari che sono necessarie per tirare avanti. La vacanza era il tempo essenziale, quello che nobilitava e faceva crescere. Noi lo abbiamo disimparato.
In realtà, molti durante le vacanze fanno viaggi, anche sfibranti. Spesso sfibranti perché frettolosi, schiacciati nei pochi giorni concessi dalle disponibilità economiche e dalla brevità delle vacanze stesse. Viaggi in cui si collezionano cartoline mentali di luoghi, che si guardano per aggiungerli alla propria lista, senza la possibilità di viverli o di capirli. Insomma, viaggi che solo illusoriamente sono delle esperienze, ma in realtà sono soltanto dei diversivi.
Chi non fa un viaggio, tipicamente si sparapanza sotto l’ombrellone. Diciamo che giacere sulla spiaggia è il tipo di vacanza più praticato da noi italiani.
C’è da domandarsi: avremmo alternative? Molti non ne hanno, perché le loro vacanze sono troppo brevi, e gli lasciano veramente solo il tempo di recuperare le forze non facendo niente, o al massimo di percorrere frettolosamente un luogo turistico. Eppure non in tutti i tipi di lavoro questo sarebbe inevitabile. Anzi, in alcuni tipi di occupazione e in alcune fasi della vita vacanze più lunghe sarebbero non solo possibili, ma necessarie. È il caso della categoria di persone di cui mi trovo a conoscere meglio gli impegni, e la cui formazione dovrebbe stare a cuore a tutti perché sono, verosimilmente, il gruppo portante del paese di domani: gli studenti universitari. Tralasciando i più brevi periodi di Natale e Pasqua, che cosa sono le loro vacanze estive?
Innanzitutto, che cosa erano. Ancora pochi decenni orsono, i corsi universitari iniziavano il 5 novembre e terminavano alla fine di maggio. Gli esami si svolgevano in giugno. I mesi di luglio, agosto, settembre e ottobre non erano occupati. Erano vacanti. C’era il tempo non solo di sparapanzarsi sotto l’ombrellone di mamma e papà, ma di inventare qualcosa. E non un viaggetto frettoloso, ma un complesso “viaggio di scoperta”, in cui si partiva – da soli o tra amici – con biglietti aperti per un mese o più, e con una meta di massima, perché le prime esperienze fatte concretamente nei luoghi lontani avrebbero influenzato le scelte su dove e come approfondirle con nuovi spostamenti nel seguito del lungo periodo disponibile.
A parte i viaggi, il tempo lungo permetteva un alto livello di costruttività. E alti livelli di creatività. Era possibile sprofondarsi nella conoscenza di un autore o di una corrente di romanzieri, divorando moltissimi libri; oppure inseguire le opere di un pittore fino a conoscerlo davvero. Suonare accanitamente, da soli o in gruppo, strumenti musicali fino a diventarne padroni come non mai. Nei campi scientifici e tecnologici era possibile imprimere analoghe spinte alla propria vocazione intellettuale, cioè dedicarsi in maniera piena, continua, libera, a qualcosa verso cui ci si sentiva portati. Insomma, nelle lunghe vacanze ci si affrancava dalla formazione curriculare, quella standard, uguale per tutti, concepita per garantire le basi necessarie a partire dalle quali costruire la propria personalità; e ci si dedicava… a costruire la propria personalità. I mesi vuoti di attività abituali erano lì per farsi riempire in modo prezioso. Erano, per chi sapeva metterli a frutto, una fase di crescita non meno importante dello studio comandato. Forse la cosa più importante: tempi lunghi lontano dai luoghi di istruzione permettevano ai giovani di instaurare un rapporto con la natura che li rendeva capaci di relativizzare le strutture e i valori della civiltà costruita dall’uomo, e di restituirgli il posto molto discutibile che gli compete nel più complesso orizzonte delle cose. Per queste ragioni – io credo – le vacanze erano un passaggio essenziale nella creazione di persone e cittadini migliori, oltre che più felici.
Poi si è diffuso in tutti i campi dell’agire il paradigma secondo cui il lavoro è un’occupazione che deve avvenire in regime di concorrenza e di mercato; quindi se uno lavora di meno soccombe, e allora si finisce per lavorare tutti il più possibile. Questo paradigma nasce nelle aziende, che producono merci o servizi e che hanno un criterio quasi unico a guidarle: il profitto. Però è stato esportato anche dove queste condizioni non ci sono affatto, e dove quello che si fa richiederebbe di essere fatto in maniera diversa. Ad esempio, tornando al nostro caso, si è diffusa la convinzione, veramente demenziale, che più tempo le persone (docenti e studenti) passano nella sede della loro università, meglio è. Questa convinzione, che equipara il lavoro intellettuale alla presenza in sede (mentre le due cose sono quasi esattamente il contrario), si è alleata con la pigrizia degli studenti che vorrebbero sempre rimandare gli esami, e premono per avere infinite occasioni in cui provare a ridarli senza mai prepararli fino in fondo (vedi Educare o diseducare?, Il Mulino, 28 aprile 2016).
Oggi quindi gli studenti hanno “ottenuto”, da collegi di docenti sempre più vili e ottusamente colpevolizzati, sessioni d’esame che durano dalla fine di maggio alla fine di luglio, e prontamente riprendono dall’inizio di settembre, cosicché non sono costretti a sapere le cose a giugno, ma se le possono trascinare e diluire in una perenne, fiacca, inconcludente preparazione di esami che non conosce vere interruzioni. Chi dà l’ultimo esame il 27 luglio e deve preparare il successivo per il 5 settembre, quante vacanze estive ha? Può fare un interrail di un mese in nord Europa? Può approfondire con vorace libertà un campo del sapere? Può sprofondarsi in sé stesso, e trovarci qualcosa che lo spinga a progettare un cammino esistenziale e professionale non ovvio, diverso da quelli preconfezionati che gli propone il mondo della produzione e dei consumi già esistenti? Se l’esame di settembre lo vuole preparare e non solo “tentare” sperando in un professore distratto (cioè fallirlo), ha giusto il tempo di sparapanzarsi per un paio di settimane sotto l’ombrellone di mamma e papà.
Non parliamo poi dei professori, ormai incapsulati fino alla fine di luglio e di nuovo dall’inizio di settembre nel tran tran degli adempimenti accademici (rendicontazioni, autovalutazioni, riunioni per adeguarsi a direttive burocratiche, e anche, sì, protratto espletamento delle prove d’esame), costretti per tutto l’anno a rincorrere nei ritagli di tempo la produttività scientifica minima richiesta, su temi bene accetti alle agenzie di valutazione; insomma, aggiogati senza interruzione al meccanismo della burocratizzazione intellettuale. È stata sostanzialmente cancellata la loro libertà di decidere, in quanto massimi esperti della disciplina che studiano, come organizzarne lo studio. Sono ostacolati (dalla stessa istituzione che li paga) nello svolgere la parte più importante del loro lavoro, cioè la costruzione e il mantenimento di una figura intellettuale originale, profonda e sempre rinnovata, da cui scaturiscano lezioni agli studenti e lavoro scientifico di livello veramente alto. Eppure ciò che un professore deve “produrre” non sono merci, e non sono soltanto servizi, ma soprattutto una personalità intellettuale significativa, in modo da poterla trasmettere.
Insomma, le vacanze, almeno nelle professioni intellettuali, erano il momento di vacatio dagli impedimenti, di otium riflessivo, in cui si “studiava”, cioè si costruivano gran parte dell’originalità di pensiero e di impostazione, e la personalità intellettuale, che poi durante il periodo “lavorativo” trovavano applicazione nella didattica e nella conduzione di concrete azioni di ricerca.
Era stata una profonda conoscenza di che cosa siano la cultura, l’intelligenza, la trasmissione del sapere e la funzione dell’intellettuale, a distillare il meccanismo che ha costruito e organizzato in quel modo la vita universitaria per secoli, concorrendo a edificare la civiltà. In pochi decenni questa conoscenza è stata abbandonata per rincorrere modelli di attività che poco hanno a che fare con la cultura e il progresso intellettuali, perché sono finalizzati alla produzione in serie di merci e servizi. Applicando quei modelli alla formazione dei giovani e alla costruzione delle figure di studiosi che dovrebbero guidarla, si è guastato qualcosa di delicato e necessario. Equiparando le persone a macchine erogatrici di prodotti e servizi, si è finito per pensare che le vacanze siano soltanto una specie di ricarica delle batterie, un periodo in sé inutile, ma necessario per poter riprendere il più presto possibile a produrre. Quindi un periodo in cui non fare niente, per riposarsi più in fretta. Invece le vacanze possono essere il vertice dell’esperienza di una persona, il momento in cui più che mai costruisce se stessa. Con vantaggio perfino della sua capacità produttiva.
A questo proposito, una singolare conferma è venuta dal periodo di inattività lavorativa imposto dal coronavirus. Durante la chiusura delle attività produttive, si sono riscontrati nelle persone due tipi di reazione. Quelli del primo tipo hanno interpretato il tempo libero, la “vacanza forzata”, nel modo che stiamo mettendo in discussione, cioè come tempo da dedicare a non fare niente. Quindi lo hanno passato a lamentarsi che la loro attività economica non produceva più alcun reddito, e a mangiare popcorn davanti a serie televisive. Quelli del secondo tipo hanno interpretato la lunga vacanza forzata come tempo a disposizione per fare qualcosa di diverso. Hanno approfittato di una ricchezza che non avevano avuto mai: la libertà dall’ingranaggio produttivo che fino al giorno prima assorbiva ogni minuto delle loro giornate, impedendogli di progettare e realizzare un salto di qualità. Si sono domandati di che cosa aveva bisogno il loro ristorante, la loro manifattura, la loro agenzia, la loro attività free-lance, per funzionare meglio. Hanno fatto ricerche approfondite sui dati del settore, hanno studiato libri che prima non avevano mai avuto il tempo di leggere, e si sono documentati su esperienze condotte in paesi diversi. Hanno parlato con persone con cui prima non avevano mai avuto tempo di parlare. Hanno capito cose che forse senza quella pausa dagli adempimenti quotidiani non avrebbero mai avuto il tempo e l’energia di capire, e hanno cambiato le proprie cose in meglio. Per loro, il corso di molti anni a venire è stato modificato da quei due o tre mesi di vacanza.
[1] Questo si vede bene quando tecnicamente si dice che un posto, una carica, una sede sono vacanti, cioè non occupati da qualcuno.
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega