Diversi lettori chiedono se e come si debba tradurre la parola inglese governance in ambito politico e in contesti aziendali, quale sia il genere da attribuirle in italiano e se sia lecito usare questa o altre parole inglesi nel testo di una legge.

Come osserva Remigio Ratti (Il caso di governance/governanza, in La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, a cura di Claudio Marazzini e Alessio Petralli, Firenze, Accademia della Crusca, 2015, pp. 50-54), «Governance nasce dall’esigenza di esprimere l’evoluzione del centro del potere – del “come e in che modo si governa” – non più strettamente associato a quello del governo statale». In altre parole, il termine serve a designare l’azione di indirizzo, gestione, regolazione, amministrazione e controllo in organismi e strutture pur sempre di grandi dimensioni, ma diversi dal governo dello Stato e dagli organi istituzionali che ne dipendono. Quindi esprime un senso più generale rispetto all’azione che può strettamente definirsi di governo (il governo del paese, il buon governo). Questa esigenza è posta dalla globalizzazione e dall’affacciarsi, sulla scena delle attività che attuano una regolazione e un controllo complessi e su larga scala, di rilevanti soggetti non solo governativi; ad esempio grandi imprese sia nazionali che multinazionali, ONG, organismi di coordinamento di settori produttivi o finanziari, ecc.

In linea di principio, nulla vieterebbe di usare il termine governo anche per soggetti diversi da quelli statali, perché in generale le parole si prestano a contenere significati fra loro diversi e contigui; per esempio, governo può designare il controllo di un cavallo, di un’automobile o di una nave (“com’io vidi una nave piccioletta / venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto”, scrive Dante in Inferno, VIII, 15-17). Quest’ultimo è anzi il suo senso originario, dato che il latino gubernum (che a sua volta viene dalla terminologia navale greca) designava il timone di un’imbarcazione; e quindi il senso di regolazione e controllo di organismi complessi, e perfino dello Stato, deriva già per metafora dal governo della nave. Si potrebbe dunque benissimo continuare a sfruttare questa possibilità di estensioni metaforiche, e dire il governo dei mercati finanziari, o il governo dell’azienda (rinunciando alla corporate governance). Ma, certo, per questi scopi il nuovo termine di origine inglese si presenta come più perspicuo.

Per questo motivo, arbitrario nel linguaggio comune può considerarsi sinonimo di indebito o di abusivo, nell’indicare che un giudizio o una condotta emanano da posizioni individuali non riconosciute collettivamente come giuste: ha agito di testa sua, arbitrariamente, abusivamente, indebitamente, ingiustificatamente ecc. Nel linguaggio giuridico, questi termini (come spesso accade ai sinonimi) vengono adoperati in sensi più precisi, anche se non esenti da sovrapposizioni. In ordinamenti ormai superati, una decisione o una pena arbitraria era quella rimessa alla mera discrezionalità del giudice. Oggi si dice arbitrario ciò che è fatto ad arbitrio di uno o più individui e senza autorizzazione; mentre è indebito ciò che in base alla legge non è dovuto, oppure è proibito; ed è abusivo ciò che si compie − tipicamente − usando una risorsa o un potere senza averne titolo o diritto.

Si potrebbe allora, almeno, usare sempre governo quando il soggetto dell’attività di regolazione e controllo è governativo in senso stretto, cioè statale. Tuttavia, anche in questi casi, il nuovo termine governance torna utile per designare un’azione direttiva che sempre più spesso si attua non soltanto per i canali istituzionali, bensì anche con il concorso di soggetti di varia natura, ad esempio mediante deleghe, incentivi, incarichi e altri tipi di chiamata a collaborare nei confronti di entità semipubbliche o private. Corrispondentemente, più questi casi sono designati mediante il termine apposito governance, più la parola governo potrebbe specializzarsi per l’agire strettamente istituzionale.

Su un piano che potremmo definire storico, l’adozione del termine governance come esplicitamente diverso da governo contribuisce a sancire un modello di società in cui il controllo dei meccanismi economici e sociali fondamentali non sia più solo dello Stato, ma di una pluralità di soggetti diversi, anche privati. Il termine specifico, insomma, delimita un nuovo concetto e ne riconosce la rilevanza per la comunità che usa la lingua.

Quanto alla sua origine, governance è uno dei tanti “cavalli di ritorno” che l’inglese restituisce al dominio delle lingue neolatine, perché è a sua volta prestito dal francese gouvernance, da cui (se non dal provenzale) viene pure l’italiano governanza, attestato almeno dal XIV secolo. Governanza è dunque il primo candidato a fornire una traduzione specifica per l’inglese governance, e non è certo un caso se, come osserva sempre Ratti, è adottato estesamente (accanto al prestito inglese) nelle versioni italiane dei documenti ufficiali svizzeri (dove in francese e in tedesco figurano anche rispettivamente gouvernance gouvernanz). A favore di questa soluzione Ratti riporta l’opinione di Francesco Sabatini: “alla base del termine inglese odierno c’è una radice neolatina, che aveva già avuto uno sviluppo in ambiente italiano. Far rivivere ora il nostro vocabolo antico come adattamento del vocabolo (franco-) inglese è perfettamente legittimo e altamente funzionale”. D’altro canto si può osservare che nell’italiano d’Italia il suffisso -anza è ormai scarsamente produttivo, e formare una nuova parola con esso può generare (così è per chi scrive) l’impressione di un termine antiquato, più adatto a un romanzo cavalleresco che a un consiglio di amministrazione o al testo di un decreto che mette ordine in una materia emergente. Questo potrebbe renderlo poco accetto proprio nelle sedi in cui dovrebbe essere adottato, dove infatti si preferisce governance oppure, di volta in volta e a seconda delle necessità, lo stesso governo oppure uno dei termini di significato più parziale che abbiamo usati sopra per definire governance: amministrazione, regolazione, gestione, controllo e simili.

A questo proposito un lettore, facendo l’esempio del Decreto Legislativo 18 aprile 2016, n. 50, il cui Titolo II (articoli 212-215) si intitola Governance, chiede se più in generale un titolo di paragrafo inglese sia accettabile in una legge italiana. Si può rilevare che due sono le possibilità:

1. La parola è di origine straniera ma è ormai divenuta italiana, quindi il problema non si pone. Ad esempio, è difficile sostenere che titoli di leggi non possano contenere le parole filmcomputer o sport.

2. La parola straniera non è ancora pienamente accettata come italiana in tutte le sedi, ma il legislatore ha ritenuto con essa di esprimere al meglio ciò che voleva fosse il dettato della legge. In questo caso, se per evitare la parola straniera si usasse una diversa espressione italiana, la lingua italiana ne avrebbe il vantaggio di essere più rappresentata, e la legge italiana ne avrebbe lo svantaggio di regolare la materia in modo meno aderente alle intenzioni del legislatore. Data l’importanza dell’interesse di tutti a che le leggi siano fatte il meglio possibile, la preferenza per un’espressione italiana su una straniera converrebbe alla collettività solo nel caso che fra le due vi fosse equivalenza perfetta. È appena il caso di rilevare che questa scelta si applica continuamente nell’attività del legislatore italiano, per tutti i titoli (invero la quasi totalità) che vengono formulati senza adoperare espressioni straniere, dato che sono a disposizione espressioni italiane perfettamente adeguate. Certo, vi possono essere casi in cui il legislatore ha usato un termine straniero non perché gli era utile, ma perché non si è accorto che l’italiano disponeva dell’equivalente perfetto. Ma bisognerà anche riflettere che l’equivalenza perfetta non si ferma all’identità di denotazione (cioè al designare esattamente gli stessi oggetti): la legislazione di un paese è ormai (e sempre più) in un rapporto di dipendenza e di dialogo con quella internazionale, per cui a volte è utile l’uso di termini internazionali che permettano di garantire, e dare evidenza per chiunque, al fatto che i testi di legge internazionali e nazionali si riferiscono alle stesse cose.

Infine, sul genere grammaticale di governance possiamo rispondere che i termini inglesi che designano entità non sessuate si rendono in italiano col genere non marcato, ossia il maschile, solo in assenza di altri criteri o altre motivazioni che determinino le scelte dei parlanti. Si veda a tal proposito l’intervento di Raffaella Setti sul Genere dei forestierismi (7 febbraio 2017) in questa rubrica. In particolare, il genere adottato può ricalcare quello dei più vicini equivalenti semantici italiani, come nel caso di slidestation, list, zone, page o dei loro composti, che sono femminili nella nostra lingua come diapositiva, stazione, lista, zona e pagina; oppure può modellarsi sul genere delle parole italiane formate con un suffisso riconoscibilmente equivalente a quello inglese: i prestiti in -tion (fiction, escalation, compilation, reception) e in -ity (austerity, commodity, utility, authority) sono femminili per analogia con le serie di sostantivi italiani in -zione e –ità. Lo stesso vale per i prestiti in -ance (in maggioranza entrati dal francese), di cui è trasparente l’equivalenza con -anza; quindi governance è femminile come performance nonchalance.

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