A poco più di due settimane dalla bagarre scatenata dalla scelta di Giuseppe Conte di “fare nomi e cognomi”, giudicata da alcuni eccessivamente esplicita, poco tempo dopo il Presidente del Consiglio è stato tacciato, al contrario, di avere parlato in modo fin troppo vago. Il nuovo pandemonio mediatico è infatti scoppiato a seguito della conferenza stampa dello scorso 26 aprile, dedicata alla cosiddetta “fase 2” dell’emergenza Coronavirus in cui Conte, a proposito dei soggetti cui sarà consentito fare visita dal 4 maggio, ha parlato di “congiunti”, suscitando fin da subito una confusione generale. I dubbi non sono stati dissipati dal testo del nuovo DPCM, che, parimenti, consente di “incontrare congiunti”.
La nozione elementare di vaghezza è abbastanza intuitiva: una frase è vaga quando esprime contenuti non precisi, non definiti. Questo potrebbe essere percepito come un’imperfezione del linguaggio. A ben vedere, però, una dose di vaghezza deve caratterizzare quasi tutti i nostri scambi comunicativi (Tullio De Mauro, Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Laterza 1982). La ragione principale è economica: il lessico di una lingua è composto per lo più da parole che esprimono categorie generali, che si usano ogni volta per designare oggetti concreti. Ad esempio, in italiano il sostantivo “tavolo” di per sé può stare per innumerevoli tavoli diversi, ma questa indeterminatezza semantica non costituisce un problema, perché i contesti chiariscono ogni volta di che tavolo si sta parlando. Se l’italiano dovesse dotarsi di un vocabolario senza vaghezza, dovrebbe coniare una parola diversa per ogni concreto tavolo, una per ogni sedia, perfino una per ogni filo d’erba, e così via. Appare evidente come, a causa dei limiti di memoria dei parlanti, un tale sistema di comunicazione sarebbe fisiologicamente insostenibile.
Vediamo un altro esempio che mostra quanto la vaghezza sia comune nei nostri scambi quotidiani. La frase: “Maria ha finito il suo libro” apre a diverse interpretazioni possibili. Saranno il contesto e le conoscenze condivise dagli interlocutori a chiarire se Maria ha finito di leggere il libro, se ha finito di scriverlo (se è una scrittrice), se ha finito di rilegarlo (se è una rilegatrice), di colorarlo (se è una bambina piccola), di cuocerlo (se è una cake-designer), di mangiarlo (se è una capra), e così via.
Casi come questi, nei quali i parlanti usano espressioni potenzialmente vaghe per una ragione economica, si possono definire “cooperativi”, cioè onesti, perché non nascondono secondi fini. Talvolta, però, la scelta di esprimersi in maniera vaga può non essere del tutto onesta. In testi di carattere persuasivo, come i discorsi politici, la strategia di lasciare implicite alcune informazioni rilevanti può servire a mimetizzare contenuti che renderebbero il messaggio meno convincente, o che porrebbero l’oratore in una posizione difficile (la questione è monitorata dall’Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda. Prendiamo come esempio una frase di Matteo Salvini, pronunciata nel 2017 a Catania:
“Salvini in Sicilia avrebbe anche potuto non venire, se qualcuno avesse fatto il suo mestiere […]”.
A chi nello specifico sia rivolta l’accusa rimane vago, e quindi estremamente difficile da smentire, a differenza di quel che sarebbe accaduto facendo dei nomi.
Oppure, in campagna elettorale per le elezioni europee del 2013, Matteo Renzi afferma:
“Questo paese è in grado di fare tutto”.
Chiaramente, non può intendere davvero tutto; in effetti, che cosa voglia dire nello specifico rimane vago, e neanche il contesto ci aiuta nell’interpretazione.
Però, quello che conta è che “tutto” suona molto bene; e questa connotazione positiva permette a Renzi di raccogliere simpatia pur non avendo in realtà detto niente (Edoardo Lombardi Vallauri, La lingua disonesta, Il Mulino 2019).
Inoltre, la vaghezza permette agli oratori politici di rinegoziare continuamente il significato dei termini a sostegno delle loro argomentazioni (Raffaella Petrilli, La lingua politica. Lessico e strutture argomentative, Carocci 2016). Basti pensare ai modi più disparati in cui, proprio qualche giorno fa, è stato declinato il concetto di “Festa della Liberazione” da parte dei diversi schieramenti: come liberazione dal nazifascismo, come generica libertà, come ricordo dei caduti di tutte le guerre, e persino delle vittime del Coronavirus.
Come effetto collaterale, attorno al linguaggio politico aleggia un’aura negativa, da cui il nome di politichese (come ormai lo si chiama dalla Prima Repubblica), che sta a indicare un modo di esprimersi volutamente oscuro, ambiguo, opportunista. Ma quello che viene imputato a Conte è un politichese ancora più indecifrabile del solito: e in questa come in altre occasioni, molti riconducono il carattere enigmatico del modo di esprimersi del Presidente del Consiglio anche alla sua formazione giuridica. In effetti, per quanto possa sorprendere i non addetti ai lavori, la vaghezza caratterizza anche il linguaggio delle leggi. La presenza di espressioni vaghe in testi normativi è ampiamente studiata. Ne sono dimostrazione termini come “buon senso“, “serietà”, “atteggiamento consono”, “buon costume”, “appropriato”, “necessario”, dalla cui interpretazione spesso dipende l’applicazione delle norme di legge (Stefania Cavagnoli, Il discorso giuridico fra equivalenza, cultura, soluzioni possibili, Repères DoRiF 2016).
Ad esempio, l’Art. 21 Cost., quinto e sesto comma, recita:
“[…] La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni” (corsivo nostro).
Naturalmente le fattispecie giudicate contrarie al buon costume negli anni Quaranta non corrispondono a quelli che un giudice potrebbe considerare come punibili oggi. Queste espressioni vaghe possono causare problemi di interpretazione in fase applicativa. Ma in realtà, nella maggior parte dei casi la vaghezza è coerente proprio con la funzione normativa. Infatti, più un testo è generico, più fattispecie potrà regolare. Se il testo dell’Art.21 Cost. non fosse stato così vago, lo si sarebbe dovuto modificare col mutare dei costumi. Inoltre, una legge che stabilisse l’elenco esatto dei comportamenti contrari al buon costume avrebbe due difetti inaccettabili. Primo, dovrebbe essere mostruosamente lunga; secondo, sarebbe ingiusta, perché basta cambiare situazione, luogo o persone perché lo stesso comportamento, descritto negli stessi termini, passi dall’essere indecente al non esserlo, o viceversa. Quindi è molto meglio che il concetto sia espresso in maniera vaga nel testo di legge, e interpretato di volta in volta.
In generale, comunque, essendo la vaghezza una caratteristica intrinseca del codice linguistico, ed essendo pervasiva negli scambi quotidiani, i parlanti tendono a non accorgersi di questo ingrediente del linguaggio. Ma questa volta l’opinione pubblica non ha perdonato la vaghezza presente nel discorso del Presidente del Consiglio e nel suo decreto. Perché? Probabilmente perché a differenza della maggioranza delle leggi questo decreto regola comportamenti privati che non siamo abituati a vedere regolati per legge.
Dunque il problema in realtà non è la vaghezza del termine “congiunti”. Pressato dall’opinione pubblica, Palazzo Chigi si è trovato costretto a precisare che esso farebbe riferimento a «parenti e affini, coniuge, conviventi, fidanzati stabili, affetti stabili» (corsivo nostro). Ma il rimedio non poteva essere migliore del male. Infatti, mentre il Codice Civile definisce chiaramente chi siano i parenti, gli affini e il coniuge, i vincoli di “fidanzato/affetto stabile” non sono giuridicamente rilevanti, e ne risulta difficile, se non impossibile, la delimitazione. Più in generale: siamo sicuri di preferire un decreto in cui sia stabilito espressamente che si può far visita a un cugino di terzo grado e non all’amico del cuore? Oppure alla zia e non alla fidanzata? Sarebbe giusto e opportuno sempre, per tutti? Non è meglio “congiunti”, da interpretare cum grano salis come si fa con “buon costume” o con “guida pericolosa”, che indubbiamente va proibita ma al tempo stesso non può essere definita una volta per tutte?
Forse l’irritazione generale per i discorsi di Conte non si giustifica tanto per cose come la parola “congiunti”, che in questo caso ha solo attirato l’attenzione e fatto da capro espiatorio; ma per la straordinaria inconcludenza con cui il premier parla in alcune occasioni. Quando si è trattato di accusare i suoi avversari, ha dimostrato di saper essere molto diretto ed esplicito, e ha fatto addirittura l’apologia di questa scelta. Ma quando parla dell’epidemia, anziché dare informazioni di cui ci sarebbe molto bisogno (su questo, vedi Montanari e Lombardi Vallauri su Micromega), resta vago: dice un sacco di cose che tutti sanno già, fa appelli ai sentimenti che non apportano contenuti, spesso enuncia a breve distanza di tempo cose contraddittorie. Probabilmente le informazioni di cui ci sarebbe bisogno non le ha (averle non sembra essere una sua priorità), ed è costretto a cercare di cavarsela così.
Il caso è simile a quello raccontato da Isaac Asimov in Foundation. Circa 50.000 anni dopo la scoperta dell’energia atomica, il pianeta della Fondazione è minacciato dal bellicoso pianeta Anacreon, che dispone di forze soverchianti. Ma l’ambasciatore dell’Impero, Lord Dorwin, ha appena terminato una visita diplomatica nel corso della quale, tenendo vari discorsi amichevoli e accorati, ha rassicurato tutti i governanti-scienziati di Fondazione sull’appoggio e la protezione dell’Impero contro eventuali minacce. Tutti i governanti-scienziati meno uno: l’uomo del destino e futuro salvatore della patria, il sindaco Salvor Hardin. Questi cerca di mettere in guardia il governo, asserendo che Anacreon attaccherà, e che l’Impero non interverrà a proteggere la Fondazione. I notabili tutti d’accordo obbiettano che le assicurazioni e le promesse di protezione fornite da Lord Dorwin a nome dell’Impero sono soddisfacenti. Hardin allora rivela di avere registrato ogni parola pronunciata da Lord Dorwin durante la visita diplomatica, e di avere chiesto ai colleghi del Dipartimento di Logica Simbolica di calcolarne il significato complessivo, al netto delle espressioni vaghe a cui non era possibile assegnare un senso preciso, e delle contraddizioni che si elidono l’una con l’altra come cifre di segno diverso in un’equazione. Il risultato, rivela Hardin agli inorriditi governanti di Fondazione, è il seguente: il collega Holk ha ammesso che l’analisi per cercare il significato nella prosa di Lord Dorwin è la più difficile che abbia mai fatta; ma alla fine, “dopo due giorni di lavoro, eliminando le vaghe affermazioni senza senso, i farfugliamenti, le osservazioni irrilevanti e tutta la fuffa diversiva, ha constatato che non rimaneva nulla. Tutto cancellato. Lord Dorwin, signori, in cinque giorni di discorsi non ha detto assolutamente niente.”
Ecco: tornando al 2020, certamente le ragioni delle scelte del premier sono nell’estrema difficoltà di assumere decisioni nette in una situazione così grave e così inedita, e nella necessità di rivolgersi comunque alla popolazione. Ma l’impressione che si riceve è che, in materia di coronavirus, se si provasse a calcolare in termini logici il significato espresso dai discorsi di Conte, la somma farebbe zero.