Un numero monografico di Micromega appena uscito (il n. 6 del 2018) ha sottolineato – accanto alla innegabile importanza del politically correct nel modificare il grado di rispetto goduto da alcune categorie di persone storicamente svantaggiate – anche i guasti prodotti dalla sua deriva attuale. Con le parole di Gloria Origgi (Genesi, sviluppi e derive di un’ideologia americana), questi si possono definire come “tutti gli eccessi di «rispetto delle sensibilità» che creano un clima di censura e autocensura nelle nostre società tardo-liberali”. E a causa di questi eccessi ha ragione Gérard Biard (Il furore identitario e le sue contraddizioni) a osservare che il politically correct “all’inizio è nato da un’eccellente intenzione, quella di non insultare le persone per quello che erano, ma oggi vuol dire una cosa e il suo contrario, quindi non vuole dire più nulla.” Qui, richiamandoci implicitamente alle molte cose interessanti contenute in quel numero della rivista, cerchiamo di affiancare una descrizione e se possibile una spiegazione di alcuni aspetti del politically correct che si possono considerare strettamente linguistici.

Politically cambia il senso di correct, come in occhi azzurri e occhi rossi gli aggettivi selezionano un diverso significato della parola occhi (per tacere del significato di occhio nero). Quindi non occorre aspettarsi che correct significhi, all’interno di questa espressione, le stesse cose che significa in altri contesti. In particolare, quello che è corretto dal punto di vista “politico” (ma si intende che il termine significa più in generale ‘politico-sociale-ideologico’) non è detto che sia correct dal punto di vista linguistico o della verità. Anzi, ci possono essere posizioni politiche che trovano correct dire alcune bugie, cioè trovano correct quelle bugie; o perché ci credono, o perché pur non credendoci le giustificano “a fin di bene”. In definitiva sono legittime posizioni politiche diverse, che trovino correct bugie diverse, oppure opinioni diverse. (E chi può tracciare un confine netto fra opinioni e bugie?) Che di fatto tali posizioni politiche godano pienamente del diritto di esercitarsi, e perfino di sedere in Parlamento, è fuori di dubbio. Probabilmente, tuttavia, restano da preferire le posizioni politiche che trovano correct usare le parole per esprimere la verità. Questo rende comunque interessante domandarsi se l’uso delle parole introdotto dal politically correct sia un uso corretto anche dal punto di vista del funzionamento della lingua, quindi dell’aderenza agli scopi condivisi della comunicazione e alla realtà dei fatti.

Il politically correct ha introdotto nuove abitudini linguistiche secondo 3 pattern fondamentali:

Pattern di sostituzione 1: da termine offensivo a termine neutrale – Il termine in uso originariamente aveva senso dispregiativo, e si è preferito adottarne uno descrittivo senza valore offensivo. Questo è accaduto ad esempio negli Stati Uniti per nigger, che conteneva una forte componente offensiva e perciò è stato bandito sostituendogli termini come black o afroamerican. In Italia è fra gli altri il caso di serva, che è uscito completamente dall’uso delle famiglie. Al suo posto, sono state preferite espressioni come donna di servizio o donna delle pulizie, spesso anche abbreviate in “la donna”.1 Allo stesso modo, la coscienza collettiva “responsabile” ha rifiutato l’uso di finocchio o frocio, e di tutta la gamma dei termini dispregiativi equivalenti (per lo più differenziati su base regionale: checca, culattone ecc.), raccomandando a suo tempo di ricorrere al termine di connotazione neutra omosessuale. Stesso destino ha subito terrone, cui nell’uso rispettoso si preferisce ad esempio meridionale.

Dal punto di vista linguistico, è difficile trovare qualcosa di sbagliato in questo procedimento. Una parola il cui uso comporta direttamente offesa a tutti coloro che designa può servire quando si vuole offendere; ma se non si vuole offendere è meglio usare un’altra parola.

Pattern di sostituzione 2: da termine offensivo a termine eufemistico – Il termine originario aveva valore offensivo, ed è stato sostituito da uno non semplicemente descrittivo, bensì eufemistico. È il caso – mondiale – della sostituzione dei termini dispregiativi per gli omosessuali: faggot, pédé, Schwuchtel, maricón, frocio e così via, con l’universale gay, conio geniale dell’internazionale omosessuale, capace di connotare finalmente in modo positivo anziché negativo il mondo della libertà di genere. A differenza di omosessuale e suoi equivalenti, gay è un eufemismo perché non designa la cosa direttamente, ma lo fa attraverso un concetto che la “migliora” e la abbellisce, in larga parte nascondendola. Lo schema è lo stesso di quando per non esprimere troppo direttamente che qualcuno è morto si dice che “è mancato”, “ci ha lasciati”, o addirittura “è volato in cielo”, e così via. Oppure di quando anziché dire che qualcuno sta male si dice che “sta poco bene”. Si può riconoscere lo stesso procedimento nel fatto che da parte di molti non ci si è accontentati di sostituire serva con donna di servizio o donna delle pulizie, ma si è cercato, eufemisticamente, di rimuovere l’espressione diretta di ciò di cui si tratta, adottando espressioni più generiche come collaboratrice familiare, spesso ulteriormente “mascherato” mediante l’abbreviazione colf.

Dal punto di vista linguistico (e non solo), si può osservare che a differenza del pattern 1 questo schema di sostituzione rivela una sorta di “cattiva coscienza” collettiva, o comunque di pessimismo profondo. Sostituire finocchio con omosessuale manifesta la convinzione che omosessuale vada bene, cioè che l’offesa sociale sia associata alla parola frocio e non alla sostanza dell’essere omosessuali. Invece l’eufemismo nasce da un’intenzione rimediale rispetto all’atteggiamento della società, cioè dalla convinzione che anche un termine neutrale contenga offesa perché nella coscienza collettiva la percezione negativa è associata direttamente alla categoria di persone; e che quindi non basti una parola neutrale, ma ce ne voglia una che “raddrizzi” tale percezione.

Quanto la necessità di rimediare alla percezione sociale della categoria di persone sia reale, dipende da caso a caso. Ma certo l’esistenza e grande diffusione di parole offensive per quella categoria parla a favore di questa necessità. Se la gente usa spesso termini dispregiativi per designare gli omosessuali, di certo tende a trasferire questa connotazione negativa anche sul più neutro omosessuale, che peraltro (al pari dei suoi equivalenti in altre lingue) è parola goffa, e per di più contenente il visibile riferimento al sesso, che è realtà fortemente tabù. Insomma, il termine è particolarmente predisposto a catalizzare connotazioni spiacevoli, più che a contrastarle. Quindi non è stata una cattiva idea, accanto ai molti altri aspetti della battaglia degli omosessuali, indurre le persone a cambiare atteggiamento anche attraverso una parola che fosse energicamente connotata in senso positivo. Di fatto, gay ha molto contribuito al progresso degli atteggiamenti nei confronti degli omosessuali in tutto il mondo “occidentale”.2

Ma non sempre l’eufemismo è così giustificato. Già il caso di collaboratrice familiare o colf è diverso, perché donna/persona di servizio o delle pulizie non era gravato dal potenziale di offesa che si associava a omosessuale. Se non c’è niente di derogatorio in addetto ai contatori o in uomo della caldaia, si può dire tranquillamente che siano altrettanto neutri donna di servizio o persona delle pulizie. E allora la sostituzione eufemistica, che occulta il concetto di ‘pulizie’ parlando genericamente di ‘collaborazione familiare’, finisce per essere – paradossalmente – il principale fattore che evoca un atteggiamento dispregiativo su quella categoria di persone. Insomma, una sorta di excusatio non petita che si traduce in accusatio manifesta. Il fatto che non si osi dire donna di servizio suscita (o come minimo rafforza) la percezione che ci sia qualcosa di male e di poco confessabile nel fare le faccende domestiche. Peggio la toppa del buco.

Pattern di sostituzione 3: da termine neutrale a termine eufemistico – Il termine originario non aveva in quanto tale valore offensivo, tuttavia a causa del fatto che esisteva un diffuso atteggiamento sociale non pienamente sereno nei confronti di quella realtà, si è creduto necessario sostituirlo con un termine eufemistico. Ad esempio, cieco e sordo sono stati sostituiti dagli eufemistici non vedente e non udente, probabilmente senza alcuna necessità, perché gli eventuali atteggiamenti di disprezzo verso chi aveva queste limitazioni non erano né indotti né incoraggiati in maniera apprezzabile da quelle parole. Non è dissimile, in linea di principio, la sostituzione di handicappato con disabile o diversamente abile; ma in questo caso bisogna osservare che la parola handicappato ha un aspetto abbastanza goffo e cacofonico; e inoltre il participio passato evoca l’immagine di una passività, dell’essere qualcuno che ha subito un trauma, capace di aggravare le percezioni associate a una condizione che infatti, non per caso, si presenta già meglio attraverso la mera riformulazione (senza vera sostituzione della parola) portatore di handicap.

Che cosa motiva queste sostituzioni eufemistiche di termini innocui, come del resto il non accontentarsi di termini neutrali in sostituzione di quelli originari offensivi, preferendo giungere fino a termini decisamente eufemistici, già visto nel pattern 2? In parte si tratta di quello che Gérard Biard nel suo intervento già citato considera un tentativo di ripristinare una irrealistica purezza nella realtà, nascondendone le imperfezioni attraverso una finzione. Esattamente come “pensiamo che eliminando Kevin Spacey da tutte le produzioni cinematografiche il male non esista più”, pensiamo che eliminando le parole cieco, sordo e handicappato il male non esista più. Sempre per dirla con Biard, “si ritiene che, per risolvere una questione importante e complicata come quella emersa, basti nascondere alla vista: se il male non lo vedo più, allora è stato espulso, ma in realtà non è affatto coprendo o cancellando che si possono gettare nuove fondamenta della società”. In ultima analisi si tratta di un comportamento stupido.

Insomma, l’eufemismo immotivato è dannoso. Perché da un lato rimuove il problema nascondendolo sotto il tappeto, e dall’altro, come abbiamo osservato, attraverso un meccanismo linguistico alimenta l’idea che della cosa in questione (la cecità, l’handicap in generale, il fare le pulizie in casa d’altri) non si possa parlare senza vergogna. Non è diverso quel che è successo con negro, che in italiano non aveva un senso dispregiativo, e che è stato trascinato nel destino di censura toccato assai più giustificatamente all’inglese nigger, con gli effetti non sempre buoni che abbiamo segnalato in un intervento apparso nelle Parole della laicità.

Non è un caso, dunque, ma una reazione del tutto comprensibile, che i diretti interessati non amino questi eufemismi. Le comunità dei ciechi e dei sordi preferiscono adoperare questi stessi termini, che dichiarano con franchezza la loro limitazione fisica, piuttosto che aver l’aria di vergognarsene al punto da non poter chiamare la cosa con il suo nome. E chi fa le pulizie lo dice chiaramente, anziché riferire che “collabora familiarmente”.

Per rendersi conto dell’effetto poco desiderabile degli eufemismi inutili, si può fare l’esperimento mentale di adoperarli per categorie che magari si sentono anche discriminate, ma che ovviamente non amerebbero avvalorare l’immagine di se stesse come difettose. Come reagirebbero le donne (e ognuno di noi) se per “rispettarle” si cominciasse a chiamarle “non penetranti”, “diversamente maschi” o “portatrici di femminilità”? Lo troveremmo evidentemente assurdo e oltraggioso. Ebbene, diversi eccessi politically correct sono proprio di questa natura.

In realtà, vale la pena di ripeterlo, siamo soprattutto di fronte agli effetti dannosi della stupidità. Si crede che il meccanico ostracismo contro una parola realizzi una vera forma di rispetto, perché si crede che l’uso della parola realizzi automaticamente una mancanza di rispetto. Invece il rispetto dipende da fattori più complessi. Chi dice “negro” può dirlo sia con rispetto che senza, a seconda delle sue intenzioni, del contesto e così via. E anche chi dice “cieco”, o “donna delle pulizie”. Perfino chi dice “frocio” o “terrone”, a dire il vero, può farlo con rispetto (ma qui, certo, l’onere della prova è invertito, e quindi una certa meccanica prudenza può convenire). Per dirla ancora con Biard, “prima di dire «è scioccante», «è razzista», «è contro la mia identità», la prima questione da porsi è chi parla […]. E la seconda è perché lo fa. A partire dalle risposte a queste domande, si può dire se si è d’accordo o meno, ma fintanto che non si è fatta questa operazione, non si può”.

Insomma, le parole sono come ogni altro strumento: possono essere usate per gli scopi e con le intenzioni più varie. E credere di poter prescindere da questi scopi e da queste intenzioni, cioè dalle condizioni reali (incluse quelle macrosociali) in cui le parole vengono adoperate, è un atteggiamento superficiale. Come definiremmo chi giudicasse razzista un bianco che mentre era in compagnia di un negro aveva in mano una spranga, senza domandarsi che cosa ci stava facendo? Non è più intelligente controllare se la stava usando per colpirlo, o per aiutarlo a liberare la sua macchina da un fosso? Ebbene, giudicare in automatico razzista l’uso di una parola è la stessa, controproducente stupidità.

La vasta sensibilità che ha reagito agli eccessi del politically correct, e iniziative energiche come quella rappresentata dall’ultimo numero di Micromega, mostrano che questi eccessi sono diventati evidenti a molte persone di buona volontà. Almeno da noi, il politically correct è oggetto di riflessione critica; non per bandirlo, ma per migliorarlo. In particolare per quanto riguarda gli aspetti linguistici, ci si può senz’altro augurare – ma anche realisticamente aspettare – per il futuro lo stabilizzarsi di un “politically correct 2.0”, che vedrà sempre più rappresentato il pattern 1 o il verificarsi di casi motivati del pattern 2, abbandonando la pratica del controproducente pattern 3. Si tratterebbe banalmente di uno di quei meccanismi omeostatici che consentono alla società, dopo avere oscillato fra due estremi entrambi eccessivi, di assestarsi in una posizione intermedia di ragionevole equilibrio.

  1. Non ci soffermiamo qui sulla componente sessista che è nell’uso a priori di donna e non del più neutrale persona per caratterizzare un collaboratore domestico anche quando non se ne conosce specificamente il sesso. Anche se, certamente, si tratta di qualcosa che ha origine nella realtà statistica prima che nel linguaggio. ↩︎
  2. Non ha avuto lo stesso successo l’inziativa promossa inizialmente da Paul Geisert e Mynga Futrell, e sostenuta fra i primi dall’etologo e biologo evoluzionista Richard Dawkins e dal filosofo e scienziato cognitivo Daniel Dennett, di adoperare per chi ha una visione del mondo razionalista e non religiosa il termine bright invece di atheist, agnostic, skeptic e altre parole che designano queste persone in termini privativi, quasi che “gli mancasse qualcosa”. Esplicitamente concepito in analogia con gay, bright sottolinea non ciò che mancherebbe a chi non è religioso, ma la sua componente di lucidità e chiarezza di pensiero. Che questa operazione di marketing sia riuscita su scala mondiale agli omosessuali e non agli atei consentirebbe di sviluppare diverse riflessioni. ↩︎

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