La parola ‘prostituta’ – e ancor di più altri sinonimi usati per indicare la donna che vende servizi sessuali – è avvolta da un tale stigma da impedire a chiunque di usarla in maniera neutra. Tanto che si deve far ricorso a neologismi – escort, sex worker, lavoro sessuale – per poter affrontare l’argomento senza tema di risultare offensivi. Ma da dove deriva questo stigma? Dal fatto che le prostitute vendono il proprio corpo come fosse una merce, si dice. Ma l’avvocato non fa forse qualcosa di simile quando vende le proprie competenze ai clienti, non di rado colpevoli? No, il vero scandalo della prostituzione sta nel fatto che si tratta di sesso fuori da legami impegnativi. È questo che la nostra cultura cattolica non tollera.

La parola prostituta viene usata con una tutt’altro che laica connotazione negativa da così tanto tempo, e tuttora da così tanta gente, che la sua funzione derogatoria non può essere facilmente evitata. Anche coloro che vorrebbero con essa designare soltanto e semplicemente una persona che esercita un mestiere, pronunciandola rischiano di risultare spregiativi perché la parola viene comunque compresa come spregiativa. Un problema del genere affligge in diverse misure anche altri termini che designano categorie di persone, come negro, ebreo, lesbica o omosessuale.

In teoria, prostituta potrebbe non rientrare in quelli che la letteratura anglosassone chiama slurs, distinguendoli dagli insults, perché estendono la denotazione negativa a un’intera categoria. In inglese questi insulti collettivi abbondano in maniera particolare. Ad esempio, nigger designa gli afroamericani aggiungendovi un senso di disprezzo che l’italiano negro per la verità aveva assai meno finché non si è voluto cominciare a considerarlo l’equivalente di nigger. Faggot equivale a finocchio, frocio, checca e simili, mentre dyke significa «lesbica» con marcato disprezzo. Kike significa «ebreo» con forte connotazione derogatoria, e così chink per «cinese», avvicinandosi al modo in cui l’italiano crucco o il francese boche designano spregiativamente i tedeschi. I termini che offendono intere categorie sono molti più di questi in inglese, e ogni lingua ha i suoi, in dipendenza dalle particolari vicende storiche e culturali che ha attraversato. In italiano, ad esempio, per note ragioni di storia recente esiste un termine dispregiativo apposta per chi è di origini meridionali: terrone.

Come fa notare Robin Jeshion1, il potere offensivo di termini di questo genere deriva dall’esistenza di stereotipi che la società ha sviluppato a proposito di intere categorie di persone. L’impiego del termine consente di fare riferimento a quella categoria associandovi lo stereotipo negativo, ed evocando il senso di spiacevolezza che si associa alle sue caratteristiche. Se dico che qualcuno è omosessuale, posso voler menzionare solo una sua precisa caratteristica, senza ammantarla di aspetti spiacevoli o riprovevoli; ma se dico che è una checca, oltre ad affermare che è omosessuale gli attribuisco volontariamente una serie di tratti spiacevoli che un diffuso stereotipo associa agli omosessuali, come l’essere vistosamente effeminato, disgustoso, moralmente colpevole e simili. Chiamare qualcuno terrone, almeno in certi ambienti, differisce dal dire che è meridionale, perché fa intendere che gli si associano caratteristiche tipiche negative o ritenute tali, come l’essere povero, sporco, inaffidabile, o semplicemente un intruso nel nostro territorio, «non-uno-di-noi». Elizabeth Camp2 giustamente sottolinea che gli slurs come minimo segnalano l’aderenza del parlante a una prospettiva che lo distanzia dal gruppo a cui il termine si riferisce.

Il termine puttana designa una donna che si prostituisce, associandovi più volontariamente di prostituta un giudizio morale negativo e una certa componente derisoria e di vergogna. In altre parole, prostituta è detto con più serietà, mentre puttana si usa con più effetto in espressioni di dileggio di chi esercita questa professione e, come vedremo fra poco, non solo. Ma anche prostituta non è esente da un alone negativo; ad esempio, non è termine che uno userebbe volentieri se dovesse dire che la propria sorella fa quel lavoro. Per rendersene conto basta considerare come suona diversamente il recente imprestito escort, che è segno dei tempi sia perché viene dall’inglese, sia perché cerca di ovviare alle connotazioni negative di cui stiamo parlando. Ma escort prima di essere reclutato a questo scopo significava qualcosa di diverso dalla prostituta vera e propria, cioè un’accompagnatrice per lo più non disponibile sessualmente. Questo mostra che nella nostra cultura, per consentire di riferirsi a questa attività e a chi la pratica senza automaticamente risultare offensivi o dispregiativi, occorre adoperare una buona dose di eufemismo e rimuovere quanto possibile l’aspetto sessuale della faccenda.

Con un’operazione simile a escort, qualche tempo prima e con notevole successo gli omosessuali di tutto il mondo sono riusciti a ottenere che ci si riferisca a loro con il termine gay, che è privo delle connotazioni negative che affliggevano i termini precedentemente in uso quasi in tutte le lingue. La sigla lgbt(qi) ha la stessa funzione per il più ampio spettro delle preferenze di genere, perché in realtà anche termini come lesbica, omosessuale o travestito, sulla carta meno spregiativi di frocio, checca e tutte le loro innumerevoli varianti regionali, avevano, e spesso tuttora hanno, nell’uso comune una componente offensiva.

Il contenuto derogatorio associato a questi termini non è esplicito, ma implicito, ed è proprio per questo che va così efficacemente a segno. Jason Stanley3 fa notare che è una proprietà generale degli slurs mantenere la loro componente dispregiativa indipendentemente dalla forma dell’enunciato in cui compaiono, per cui anche enunciati che negano esplicitamente l’associazione fra una persona e il termine continuano implicitamente a gettare la connotazione negativa del termine su tutti i membri della categoria designata:

a) Gianni non è un frocio.
b) Nella mia azienda non ci sono crucchi.
c) Mi ha offerto la cena, non è mica un ebreo.
d) Salvatore non viene da una famiglia di terroni.

e) Patrizia non c’è stata: non è certo una troia.
f) Non è un gobbo: sta per il Torino!

In queste frasi esplicitamente non si esprime disprezzo né per Gianni a), né per i membri dell’azienda del parlante b), né per chi ha offerto la cena al parlante c), né per Salvatore e i suoi familiari d), né per Patrizia, che «non c’è stata» e), né per il tifoso del Torino in f). Ma si esprime, implicitamente, disprezzo per gli omosessuali, per i tedeschi, per gli ebrei, per i meridionali, per le donne che fanno sesso facilmente e per gli juventini.

La componente negativa di questi termini designanti gruppi sociali si può considerare appunto parte della loro connotazione, che recepisce comuni stereotipi negativi sui membri del gruppo. Ma a questa si aggiunge la componente di distanziamento dall’emittente, cioè il segnale, associato al termine, che il suo referente «non è uno di noi». Implicitamente, il parlante ci comunica che gli omosessuali non fanno parte di «noi». E questo trasmette che gli omosessuali appartengono ai «cattivi» e sono sbagliati. In chi è esposto all’uso di una parola come frocio si rafforza la percezione di quel gruppo sociale come degno di disprezzo. Lo stesso vale per terrone, puttana, crucco, gobbo e così via.

Si noti che il meccanismo della «presa di distanza» che è insito nei termini di cui stiamo parlando può essere attivato anche in altro modo; e in questo caso riesce a connotare negativamente anche parole che in altri contesti sarebbero neutrali. Come osserva Jason Stanley,

se qualcuno in un discorso politico negli Stati Uniti dice «Ci sono ebrei fra noi», questo trasmette in modo esplicito un contenuto vero. Negli Stati Uniti ci sono ebrei. Ma trasmette altrettanto chiaramente il contenuto implicito che gli ebrei sono il nemico, suggerendo che gli ebrei sono invasori nemici distinti da «noi»4.

Vale la pena di sottolineare che questo effetto strisciante della componente dispregiativa implicita nel significato di alcune parole è particolarmente grave durante l’acquisizione della lingua materna, che è strettamente embricata con il formarsi della coscienza delle persone in età infantile. Un bambino o un ragazzino che sente chiamare gli omosessuali checche (oppure omosessuali in contesti che rivelano disprezzo), i meridionali terroni (o meridionali con disprezzo), si forma l’idea che queste persone siano sbagliate, o comunque peggiori di «noi». Allo stesso modo, quando sente usare termini come puttana, troia o prostituta nel loro senso traslato, per designare una donna che ha una vita sessuale libera e non gravata da pregiudizi, coglie che è presente una componente dispregiativa e la accetta senza rendersi conto che un simile giudizio di condanna è quanto meno discutibile. Questo segnerà la sua mentalità, forse per tutta la vita, perché con ogni probabilità faticherà a staccarsi dall’idea che la libertà sessuale sia male, specialmente in una donna.

Tornando a quello che succede con prostituta, l’abitudine di molti di usare il termine annettendogli un senso negativo priva di fatto tutti quanti della possibilità di adoperarlo tranquillamente in modo neutrale. Probabilmente anche per questo motivo coloro che si occupano di questi problemi hanno cominciato a usare l’inglese sex worker, che non avendo alcuna storia nell’uso italiano non è gravato da connotazioni negative. Ma si tratta di un termine che non ha circolazione nell’uso comune. Quanto a prostituta, chi invece vuole usarlo in senso negativo trova il termine bell’e pronto per questa funzione, e soltanto se vuole rincarare davvero la dose ha bisogno di ricorrere a termini appartenenti al turpiloquio come puttana, troia e simili.

Uscendo dalla mera descrizione dei fatti linguistici e cercandone le ragioni, uno sguardo autenticamente laico non potrà giustificare la connotazione negativa associata a prostituta. A differenza di quello che accade con altri slurs (si pensi a quelli cui abbiamo accennato sopra), qui la componente di significato spregiativo è essenzialmente di natura morale: è una condanna per immoralità. Naturalmente, se diciamo che ci pare ingiustificata, è anzitutto perché noi non vediamo intrinsecamente una ragione di condanna morale nel fatto di prostituirsi. Ma ciò di cui vorremmo parlare qui, è che la condanna e la connotazione negativa contenute nella parola prostituta, e riservate a chi viene così designata, ci appaiono ingiustificate perfino entro il sistema di giudizi adottato e condiviso da coloro che condannano. Infatti non è facile vedere in che cosa le prostitute siano moralmente peggiori di altre categorie di persone, con cui sembrano condividere l’essenziale di una condotta che invece soltanto in esse è disprezzata.

Queste persone che non sono bersaglio di un pari disprezzo si collocano, per così dire, da due lati diversi rispetto alle prostitute. Da un lato, le prostitute non sono certo le uniche persone che offrendo loro disponibilità sessuale ricevono di fatto qualche genere di ritorno economico. Non poche altre vivono praticando questo tipo di scambio in forme forse meno esplicite e meno dirette, ma non meno efficaci. Ad esempio, molte fanciulle preferiscono frequentare luoghi e uomini (non di rado accoppiandosi con loro) caratterizzati dall’abbondanza di denaro, perché stare accanto ai ricchi finisce spesso per essere più divertente e per assicurare più vantaggi che stare con i poveri. Questo produce il noto fenomeno per cui dove ci sono più soldi – e in compagnia di chi ha più soldi – si trovano mediamente più belle ragazze.

Restando nell’ambito dello scambio fra sesso e risorse economiche, secondo un’interpretazione pessimistica (e non solo femminista), anche il matrimonio tradizionale, spogliato della sua retorica, era una situazione in cui la donna (considerata in questo caso virtuosa) forniva prestazioni sessuali e riproduttive in cambio del sostentamento. In questa visione, che in molti casi è stata piuttosto vera (ad esempio, in modo prototipico nell’Inghilterra vittoriana) molti matrimoni borghesi erano in primo luogo un contratto economico tra due famiglie mediante la messa in campo di due loro membri. Fra i due si instaurava una relazione che, lungi dall’essere paritaria e senza necessariamente essere dettata dal sentimento, vedeva il marito investito del compito di fornire alla moglie protezione e mantenimento economico, mentre lei si procurava questi servizi svolgendo in cambio le sue mansioni, che centralmente erano rappresentate dalla praticabilità sessuale a fini sia di piacere sia, soprattutto, di procreazione degli eredi a cui trasmettere il prezioso patrimonio di famiglia.

Non è chiarissimo quale sia il confine, nel senso della differenza di moralità, tra queste situazioni e quella della prostituta che esercita lo scambio fra concessione sessuale del proprio corpo e risorse economiche in modo più esplicito. Probabilmente il confine non è netto, e dunque il discredito selettivo che si è sempre riservato solo alle professioniste del sesso non brilla per equità.

Il confine tra la donna sposata e la prostituta è invece più netto sul piano del rapporto con le norme sociali, e questo probabilmente contribuisce a determinare la netta differenza di giudizio collettivo. Come spiega l’antropologa Paola Tabet5, la categoria «prostituta» o «prostituzione» non è qualcosa che si possa delimitare nettamente e definire per un proprio contenuto concreto, ma è una funzione delle regole di proprietà sulla persona delle donne nelle differenti società. Essa è più precisamente la trasgressione, la rottura di queste regole. E si presenta come scandalo proprio perché si tratta delle regole fondamentali su cui si basano la famiglia, la riproduzione, i pilastri dei rapporti sociali tra i sessi. Possiamo dire, dunque, che mentre la donna sposata agisce (anche sessualmente, e al limite come proprietà stabile ed esclusiva dell’uomo) all’interno di regole socialmente approvate, la prostituta agisce sì come proprietà dell’uomo (al limite in modi concretamente identici), ma come proprietà transitoria di molti uomini, e quindi infrangendo quelle regole. In altre parole, a differenziare la prostituta non è il fatto di dare sesso in cambio di beni, ma è il fatto di attivare questo scambio fuori della monogamia.

Le stesse regole infrange anche, naturalmente, la donna che non si prostituisce ma conduce una vita sessuale libera da schemi. Ecco perché si attira, in senso traslato, lo stesso appellativo. Ma naturalmente resta molto discutibile che queste differenze nel grado di adeguamento a delle norme sociali possano valere anche per emettere diversi giudizi morali. Anzi, un giudizio morale autenticamente laico, cioè scevro da pregiudizi originanti da qualche tradizione, dovrà non tenerne conto.

Fin qui per quel che riguarda la difficoltà di sentenziare una sostanziale differenza di colpevolezza morale, o un più giustificato disprezzo verso chi si prostituisce, rispetto ad altri modi di vivere la dimensione sessuale.

Dall’altro lato, ci si può domandare perché vendere il proprio corpo sia degno di condanna, mentre vendere altre parti di sé no. Ad esempio, senza nessuna specifica ostilità per questa professione che è indispensabile alla nostra civiltà, bisogna ammettere che un avvocato fa mercimonio della sua mente: la vende. E non offre la sua preziosa vita morale e intellettuale solo alle cause giuste, non «va» con i partner che meritano di ottenere ragione, ma va con i partner che lo pagano. In cambio di denaro, si presta a spalleggiare il colpevole, si allea con chi ha torto, anche cercando di farlo prevalere contro il giusto. In questo senso, molti altri mestieri hanno la stessa caratteristica: chi lavora come manager, come creativo o come operaio per la Peugeot e non per la Renault, non lo fa perché la Peugeot è migliore e quindi è giusto cercare di farla prevalere sulla Renault, ma solo perché la Peugeot lo paga. E così per tantissimi altri mestieri: vendiamo la nostra abilità, la nostra creatività, la nostra intelligenza e il nostro impegno a chi ci paga in denaro. La prostituta invece – proprio per la religione cristiana da cui emana in gran parte tutto il discredito di cui stiamo parlando – vende qualcosa che ha meno valore dell’anima (cioè dell’intelligenza, della creatività, dell’abnegazione e così via), e cioè il corpo.

Non occorre diffondersi qui sulla secolare condanna della prostituzione e dell’adulterio da parte della tradizione ebraico-cristiana. Senza rievocare fasi più recenti e tristemente note6, si pensi già all’episodio evangelico di Gesù e della prostituta che gli lava i piedi con le lacrime in Luca 7,36-8,3, oppure a quello dell’adultera di «chi è senza peccato scagli la prima pietra» in Giovanni 8,1-11: in entrambi i casi Gesù interviene all’interno di un sistema di pensiero che condanna senza remissione le donne non caste, e sospende la condanna per la singola persona, ma non per la categoria.

D’altronde il cristianesimo, specie dopo l’insegnamento fortemente dualistico di san Paolo, si fa portatore di una forte svalutazione del corpo rispetto all’anima, di una superiorità dello spirito sulla carne, eretti a principio e simbolo rispettivamente della tendenza a Dio e della tendenza al male. Ebbene, di ciò che Dio ci ha donato la prostituta viola, vendendolo, non la nobilissima anima immortale che è specchio diretto del divino, ma il vile corpo corruttibile che àncora l’anima a questa condizione imperfetta e transitoria. Quindi dei due sembrerebbe immensamente più sacrilego l’avvocato (o il manager, il creativo, l’operaio specializzato), e solo modestamente colpevole la prostituta.

Insomma, la connotazione negativa della parola prostituta traccia confini troppo netti da entrambi i lati: la condanna cade solo sulla prostituzione stricto sensu, fingendo che questa sia di natura radicalmente diversa dalla prestazione d’opera intellettuale offerta a chiunque paghi, e dalla bella ragazza che va (con quanto ne segue) più volentieri sulla barca del ricco che sulla spiaggetta del povero. In particolare per quanto riguarda il paragone con la vendita di servizi intellettuali, una mentalità che esalta l’anima come superiore al corpo, e che poi tratta la prostituta come più colpevole dell’avvocato, anzi la prima come estremamente colpevole e il secondo come per niente colpevole, è una mentalità ipocrita. E l’ipocrisia ovviamente sta nel fatto di «mettere avanti» il vendersi; sta nel fingere che a rendere colpevole la prostituta sia il vendersi; mentre sotto sotto la condanna è la solita, che ossessiona la religione cristiana7: è il discredito che colpisce il fare sesso, in particolare fuori del patto monogamico. Se la colpa fosse darsi per denaro, non la si rinfaccerebbe certo solo alla prostituta. La vera colpa della prostituta, agli occhi della nostra società, è di aumentare in maniera esplicita e visibile il volume complessivo dell’attività sessuale non «riscattata» da legami impegnativi. La prostituta fa sesso, e fa fare sesso, in giro. Questa è l’infamia.

  1. R. Jeshion, «Slurs and stereotypes», Analytic Philosophy, 54, 3, 2013, pp. 314- 329. Vi si trova anche un’embrionale classificazione di questi termini nell’inglese americano. ↩︎
  2. E. Camp «Slurring Perspectives» Analytic Philosophy, 54, 3, 2013, pp. 330-349. ↩︎
  3. J. Stanley, How Propaganda Works, Princeton University Press, Princeton 2015. ↩︎
  4. Ivi p. 140. ↩︎
  5. Ringrazio la redazione di MicroMega per avermelo segnalato. ↩︎
  6. Sull’attuale posizione cristiana di condanna della prostituzione, si veda ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992 (e successive ristampe), al punto 2355. Sulla delicata relazione fra retaggio cristiano e mentalità diffusa riguardo alla prostituzione, si vedano M. Barbagli, G. Dalla Zuanna, F. Garelli, La sessualità degli italiani, il Mulino, Bologna 2010, pp. 126-128; E. Lombardi Vallauri, Ancora bigotti. Gli italiani e la morale sessuale, Einaudi, Torino 2020, pp. 82-83. ↩︎
  7. Fra i libri su questo tema, particolarmente significativo ci pare K. Deschner, La croce della Chiesa. Storia del sesso nel Cristianesimo, Massari, Bolsena 2000. ↩︎

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