Ricordo i miei fratellini, di pochi anni, seduti sul pavimento della loro stanza, che dicono:

«Stefano, ma chi avrà fatto il mondo?»

«Semplice, Martina: il mondo l’hanno fatto i muratori!»

Come vota sull’ambiente una persona che pensa così? E ci va a votare? Oppure il problema dell’ambiente non lo vede? Oppure ancora – come è avvenuto al recente referendum – crede subito a chi gli dice che il quesito è troppo tecnico?

Occorre fare un passo indietro. I miei fratellini poi hanno imparato a conoscere la natura selvaggia. Non i giardinetti, e neanche i parchi naturali con i cartelli «Voi siete qui» e la spiegazione delle specie di uccelli: la natura così com’è, quella che in Europa si trova quasi solo sopra i duemila metri. Questa vera natura, pochi italiani l’hanno percorsa davvero, e pochissimi ci hanno visto venir sera. Chi non dorme dove l’uomo non c’è, manca di qualcosa. Chi si affaccia nelle ore facili e poi torna fra le mura dove ha la luce elettrica, l’acqua calda e appoggi imbottiti, non sa di che si tratta veramente. Chi non è stato corpo a corpo con la foresta, la parete, il fiume, sa solo a parole che cosa è il mondo. Non è molto diverso dai miei fratellini a cui la città sembrava il mondo. La sua esperienza si svolge tutta nel manufatto (cfr. puntata 3 della seconda serie di Castelli in Aria, Rai Radio Tre, intitolata «Natura e manufatto – Continuo e digitale») in ciò che è dovuto all’opera dell’uomo, alle scelte dell’uomo, alle preferenze dell’uomo.

Chi è cresciuto così, all’interno della arbitraria bolla umana, è portato a giudicare ogni cosa a partire da essa. Ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che va bene e ciò che va male, ciò che importa e ciò che non importa, li determina all’interno della logica in cui è abituato a vivere, entro i confini del manufatto, del sub-mondo posticcio fabbricato a misura d’uomo.

Ma la realtà non è a misura d’uomo. Fuori dal sub-mondo che riflette il nostro modo di agire, c’è il Mondo, che lo sorregge e lo nutre. Il nostro sub-mondo manufatto è una pustola, un parassita del vero mondo. Una pustola anche molto nociva, ma pur sempre qualcosa di appoggiato sul Mondo, che se pensa di poter fare di testa sua, di prescindere dalle leggi che regolano il Mondo, si illude; e ne pagherà le conseguenze. Anche perché di quel mondo esterno, di quella natura selvaggia e incontaminata, fa parte una cosa che non possiamo tenere lontana da noi, relegandola ai margini del recinto che ci siamo creati: è il nostro corpo. Per quanto possiamo artificializzare l’ambiente intorno a noi, il nostro corpo continua ad essere un corpo di mammifero, un pezzo della natura, governato dalle sue leggi. E sono tutte leggi che noi non possiamo cambiare.

La stragrande maggioranza degli italiani non ha dormito nella natura selvaggia. I più sono terrorizzati dall’idea che le gocce di pioggia, cadendo dal cielo, possano toccarli. Escono da case e tettoie, quando piove, solo se hanno un ombrello: non capiscono che l’acqua che ti cade addosso poi si asciugherà: questo genere di cose le sanno in teoria, se si mettono a pensarci; ma non rientrano nelle loro vere esperienze. Sono abituati a non fare i conti con la natura, cioè con la realtà. E allora mettono incredibili tacchi a spillo, vanno in giro su enormi auto assurde, fanno una vita che gli procura un fisico macilento e inadeguato a tutto.

Gli ultimi ad aver avuto un contatto vero con la terra sono stati i loro nonni, qualche volta i genitori. Ebbene, che decisioni prende un corpo sociale che ormai è così «di seconda generazione» nella realtà manufatta? A che cosa dà importanza? Può rendersi conto di ciò che ha importanza davvero, nel Mondo generale, o invece si fa dettare le sue priorità dal funzionamento del sub-mondo «fatto dai muratori» che fin dai primi minuti di vita costituisce il suo unico vero sistema di riferimento?

Purtroppo, la nostra civiltà (e ogni individuo in essa) si è costruita intorno una pustola talmente possente, talmente notevole (questo bisogna ammetterlo), da non riuscire più a guardare al di fuori di essa. Invece di tarare le nostre scelte sulla realtà generale (dell’universo e del pianeta) che ci ospita, ormai da tempo ci tariamo sulla civiltà stessa. Decidiamo in base alle conseguenze che ci saranno all’interno della civiltà. I punti di riferimento più globali ed elevati a cui sappiamo ispirarci sono essi stessi qualcosa di arbitrario e inventato da noi: sono gli scenari umani (l’economia, la giustizia, l’arte…), che invece non ha senso adottare come punti di riferimento ultimi, perché a loro volta andrebbero ritarati sulla realtà vera. Ma nessuno lo fa. La civiltà è occupata quasi solo dal pensiero di sé stessa, un po’ come, riapplicando più in piccolo la stessa limitatezza dello sguardo, la televisione si occupa ormai quasi solo di sé stessa.

E allora, quando ci chiedono se vogliamo che le concessioni alle piattaforme estrattive, anche quelle più vicine a riva, durino fino a esaurimento, la maggior parte delle persone non si accorge che la domanda è importante. Pensa all’interno della sua esperienza; e questa domanda invece è fuori, fuori della bolla illusoriamente protettiva. Ma ha anche delle piccole conseguenze dentro la bolla: limitare l’estrazione costringerebbe a limitare i consumi. E limitare i consumi, dentro la pustola in cui viviamo, è solo uno svantaggio. Anche se fuori dalla pustola, nella realtà vera, il nostro limitare i consumi è l’unica cosa possibile.

Allora i petrolieri, che dentro la bolla hanno interessi immensi, hanno sfruttato questa immensa ignoranza dei più, e gli sono venuti incontro, suggerendogli che «il quesito era irrilevante», e che «il quesito era troppo tecnico». I prigionieri della bolla erano pronti per questo messaggio. Non vedevano l’ora di ricevere questo messaggio, di sapere che quelle cose là fuori dalla bolla del manufatto non li riguardavano. E così hanno potuto ignorare che in ogni referendum abrogativo la stretta formulazione della domanda verte sempre su qualcosa di tecnico, cioè su un testo di legge, ma che il compito dei cittadini è ovviamente di rispondere alla domanda politica che ne nasce. In tanti precedenti referendum la domanda era anche più tecnica, ma non c’era l’immenso interesse dei petrolieri a orchestrare una possente campagna di nascondimento della verità; e quindi in quelle occasioni le persone hanno visto la questione politica alla base della domanda tecnica.

Qui la domanda politica era semplice ed enorme. Ci hanno chiamati a dire se, come orientamento politico generale, preferiamo che il Paese, e poi pian piano anche il mondo, evolvano verso meno consumi e meno danni all’ambiente da parte di tutti (e quindi – anche se non era lo scopo – meno profitti da parte dei petrolieri), oppure preferiamo continuare tutti a consumare come e più di adesso (e di conseguenza i petrolieri ad arricchirsi sempre di più), infischiandocene di quello che accade alla natura. Il «sì» dava ai politici il primo segnale; il «no» e l’astensione davano il secondo. Questi segnali, nei referendum, diventano dei mandati al legislatore perché legiferi in maniera tecnica, subito e anche nel lungo periodo, tenendo presente l’opinione politica degli elettori.

Naturalmente sulla questione è legittimo avere opinioni diverse. Aspettiamo il giudizio della storia. Essa ci dirà se l’umanità deve andare verso maggiori consumi da parte di tutti e maggiori profitti per i petrolieri, o verso minori consumi da parte di tutti e minori profitti per i petrolieri. Allora sapremo se ha fatto l’interesse comune chi domenica 17 aprile ha votato «sì», oppure chi ha votato «no» o è stato a casa. Ma una cosa è certa: non votare perché la questione era solo tecnica è stato accomodarsi più o meno consapevolmente in un inganno, sapientemente ordito da una lobby potentissima, con l’aiuto molto attivo dei suoi alleati naturali, cioè quei politici che si mettono sempre con chiunque abbia del potere da trasferirgli; un tipo di politico che in questo Paese ha la meglio da troppo tempo.

Così noi distruggiamo il nostro Mondo; non quello finto costruito da noi, ma quello vero senza di cui non può esistere neanche il nostro. Ma la nostra invadenza, la nostra auri sacra fames ci sta rendendo dei disadattati planetari. Negli anni Cinquanta del Novecento ci voleva Herbert Marcuse, oggi basta fare un po’ di attenzione alle cose per realizzare che siamo malsani e sbilenchi.

Lascia un commento