Si parla molto degli episodi incresciosi in cui gli studenti delle scuole mancano di rispetto ai loro insegnanti, perfino vessandoli in modo bullistico. Se ne trae la ragionevole conseguenza che ad essere andato in crisi non è solo il rispetto per gli insegnanti, ma quello per ogni forma di autorità. I rapporti fra genitori e figli, ad esempio, sembrano confermarlo.
Da più parti si sostiene che si tratta dell’ultimo atto di una lunga deriva, una progressiva messa in crisi dell’autorità in quanto tale, iniziata con il movimento del ’68 (volentieri chiamato in causa nel suo cinquantenario), i cui semi avrebbero però germogliato tardivamente, non nei giovani dell’epoca, e nemmeno nei loro figli, ma in quelli che sono ragazzi(ni) oggi. Io vorrei argomentare che i semi del ’68 e l’attuale messa in crisi dell’autorità non hanno la stessa natura e le stesse cause.
In effetti, è curioso che un così potente risultato di demolizione dell’autorità non sia riuscito in maniera durevole a un movimento quasi planetario che aveva questo fra i punti più importanti della sua agenda, e che poi invece sia riuscito in maniera definitiva alcuni decenni dopo a… neanche si sa chi o che cosa.
A mio parere la ragione di tutto questo sta nella differenza fra gli atteggiamenti sull’autorità che si sono prodotti nei due momenti. Il ’68 ha revocato in dubbio il diritto a esercitare direttamente l’autorità per il fatto che si riveste un ruolo. Il genitore, il professore, il prete, il marito, ogni possessore di una posizione sovraordinata, è stato contestato perché non si è più riconosciuto che al ruolo si associasse automaticamente il diritto di comandare. Insomma, il ’68 ha privato della sua autorità chi ricopriva ruoli di autorità. Ha separato l’autorità dai ruoli. Ma non ha separato l’autorità dall’autorevolezza. Anzi. Il ’68, e correnti ideologiche affini, hanno riaffermato l’importanza dell’autorevolezza proprio in contrasto con l’autorità associata al ruolo. Hanno – eticamente – preteso che avesse autorità chi aveva autorevolezza, sia nel ruolo, sia anche fuori dal ruolo; e che non avesse più autorità chi non aveva autorevolezza, sia pure dentro un ruolo di comando. Dopo (grazie?) al ’68, si è diffusa nella società l’idea che per avere autorità, e diritto a un ruolo sovraordinato, si dovesse essere intrinsecamente autorevoli. Il diritto (e anche il dovere) di influenzare le azioni degli altri doveva provenire dal fatto di sapere più cose, essere più capaci di fare cose, essere moralmente più retti… cioè da caratteristiche della personalità che conferiscono autorevolezza. Riassumendo, il movimento del ’68, con straordinario slancio idealistico, ha seriamente contestato l’autorità riportando l’accento sull’autorevolezza. All’autorità, divenuta disvalore se vuota e solo formale, ha contrapposto l’autorevolezza come valore vero e importante.
Di conseguenza, dopo il ’68 le autorità che si fondavano sui meri ruoli hanno cominciato a declinare, ma le autorità fondate sull’autorevolezza hanno conosciuto una simmetrica crescita di importanza e di riconoscimento. I titolari di posizioni di potere sono stati via via sempre meno ascoltati, e i titolari di personalità significative sempre di più. Tornando alla figura dell’insegnante, certamente essa ha perduto l’autorità senza condizioni che prima gli era assicurata dal ruolo, ma gli è rimasta quella che tipicamente gli viene dall’autorevolezza (in particolare, dal sapere molte più cose degli alunni). Un corollario di questo è che dopo il ’68 ai diversi insegnanti vengono riconosciute dagli alunni autorità diverse a seconda della (percepita) autorevolezza.
Fin qui, vorrei dire, tutto bene. Che a fondare l’autorità di un docente non sia meccanicamente il suo rivestirne il ruolo, ma che per insegnare ci si debba dotare di personale autorevolezza, mi pare un progresso rispetto al vecchio ordine in cui un insegnante cretino, ignorante o perfino sadico godeva della stessa autorità di un insegnante dalla personalità autorevole. È un bene, cioè, che il prestigio e l’ascolto di cui gode un insegnante siano funzione della misura in cui dargli retta è nel vero interesse degli alunni. E sottostare a un insegnante inutile non è nell’interesse degli alunni, mentre sottostare a un insegnante autorevole lo è. Ma siccome gli insegnanti inutili sono pochissimi, e anche i meno bravi sono comunque molto più preparati e più maturi degli alunni, la quasi totalità degli insegnanti ha continuato a godere di un certo prestigio comparativo nei confronti degli studenti, e di conseguenza in buona misura del loro rispetto.
Insomma, sul momento il ’68 ha dato luogo ad episodi macroscopici di mancanza di rispetto, ma questi erano circoscritti all’interno di un violento affrontarsi di due paradigmi e schieramenti diversi. Era una guerra, e si sa, à la guerre comme à la guerre. Ma a regime, quando si sono calmate le acque dopo la sfuriata polemica e un po’ estrema di quegli anni, il rispetto dei professori è rimasto in gran parte intatto. Nei decenni successivi la quasi totalità degli insegnanti ha continuato a vedersi riconosciuta una certa autorità, proprio in virtù (e in proporzione) della propria autorevolezza, cioè preparazione nella materia, forza di carattere, capacità di ascolto e così via.
Ebbene, a un certo punto anche questa situazione si è fratturata. Gli alunni (almeno certi tipi di alunni; ma non entriamo nella polemica sollevata dalla nota Amaca di Michele Serra) hanno cominciato a non avere più rispetto neanche per gli insegnanti autorevoli. Neanche per quelli bravi, preparati, davvero animati dal desiderio di provvedere al bene dei ragazzi. In certi contesti, perfino gli insegnanti bravi hanno perso il loro prestigio, e così la loro autorità. E nei casi limite si vedono ormai gettare addosso derisioni, male parole, financo oggetti.
Anche di questo secondo passaggio credo si possano individuare le cause, e sono diverse da quelle che alcuni decenni orsono hanno prodotto il primo. Me ne interessa in particolare una, che credo sia la causa principale. Finché le persone si procuravano l’apprezzamento degli altri soprattutto nelle interazioni reali, l’autorevolezza (il sapere molte cose e l’essere molto bravi) era la tipica fonte del prestigio e del rispetto che ne consegue. Interagendo, le persone si accorgevano di chi era più autorevole, e glielo riconoscevano. Ad esempio, tendevano a delegare le decisioni a chi appariva più preparato, più bravo e meglio intenzionato, cioè più in grado di realizzare il bene comune. Il più autorevole si vedeva tributare volentieri prestigio, rispetto e anche posizioni di comando. Ad esempio, i politici erano reclutati fra le persone di maggiore, o almeno riconosciuta, autorevolezza.
Poi è successo che la fonte del prestigio ha smesso di essere l’autorevolezza, perché – semplificando molto – il prestigio ha smesso di prodursi come risultato di interazioni vere fra persone, e ha cominciato ad essere la conseguenza di apparizioni televisive. All’inizio questo valeva soprattutto per i grossi personaggi pubblici,1 ma piano piano è diventato così pervasivo che ha finito per modificare proprio l’idea di prestigio che si fanno la maggior parte delle persone. Il prestigio, innanzitutto, è diventato sinonimo di popolarità. E nelle apparizioni televisive il modo in cui si conquista la popolarità (e con essa ulteriori apparizioni televisive) non può essere l’autorevolezza, che ha difficoltà a emergere nei ritmi accelerati e semplificanti di programmi sempre terrorizzati dal rischio dello zapping. In televisione la popolarità si conquista con caratteristiche personali che sono l’esatto contrario dell’autorevolezza; e cioè la faccia tosta di esprimersi con slogan retorici, la superficialità (detta “leggerezza”), la capacità di non lasciarsi mai scappar detto niente di difficile, e niente che non esca dal secchiello delle venticinque cose su cui tutti sono d’accordo; insomma la cosiddetta “simpatia”, che consiste nel non rivelarsi mai scomodamente superiori a nessuno di quelli che ti stanno guardando.
A mia conoscenza, la prima (quasi profetica, e insuperata) analisi di questo fenomeno, allora limitato ma promettente, la dette Umberto Eco in un articolo del 1961 intitolato Fenomenologia di Mike Bongiorno.2 Eco suggerì che la popolarità viene dal gratificare il pubblico, e che più lo fai sentire figo, più il pubblico è gratificato. Perciò chi punta alla vera popolarità deve dare di sé un’immagine di mediocrità che permetta a tutti di non sentirsi troppo inferiori a lui. Come esempio rivelatore, Eco mostrò che l’arma principale brandita da Mike Bongiorno per assicurarsi una sterminata popolarità era esibire una quasi altrettanto estesa meschinità e ignoranza.
Quello che era in embrione al tempo di Mike Bongiorno è oggi la regola in tutta la televisione di intrattenimento, che ha visto l’accesso sistematico delle “persone qualsiasi” nei programmi, e anzi la conquista della preminenza proprio da parte dei format a cui accedono le persone qualsiasi. Oggi la maggior parte dei giovani sono ormai cresciuti in questa cultura televisiva3 in cui ciò che conta è la popolarità, e la popolarità riguarda potenzialmente tutti, ed è direttamente proporzionale alla mediocrità. I loro insegnanti non hanno un prestigio sociale autonomo, sono degli oscuri lavoratori con stipendi indecorosi che vanno in giro su piccole macchine usate.4 Poco conta che abbiano una personale autorevolezza, perché quella ha perso il suo valore e per così dire il suo sex appeal, da quando la mediocrità piaciona l’ha sostituita come fattore istintivamente riconosciuto della popolarità e quindi del potere. E dunque molti ragazzi non hanno rispetto dei loro insegnanti, perché stavolta ad aver perso il suo ruolo di prestigio non è più solo l’autorità, ma anche l’autorevolezza.
Il ’68 è stato tutt’altro.
- Su questo si può ascoltare La Prevalenza del Cretino (puntata n. 11 di Castelli in Aria) ↩︎
- Articolo raccolto nel Diario Minimo, Mondadori, 1963. ↩︎
- Ci sarebbe molto da dire sul successivo e ulteriore, ma strutturalmente diverso, ruolo del web come acceleratore della cultura della popolarità ad ogni costo nella vita dei giovanissimi, ma non possiamo farlo qui. ↩︎
- Non possiamo parlare qui della stupidità autodistruttiva di un sistema-paese che tiene la sua categoria più decisiva, gli insegnanti, in gravi condizioni di subalternità economica, e quindi sociale, rispetto a buona parte della società tutta e in particolare dei loro alunni. ↩︎
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega