Claudio Giunta

Nel febbraio scorso il «Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità» ha pubblicato online una lettera aperta firmata da circa 600 docenti universitari «Contro il declino dell’italiano a scuola». La lettera comincia così: «È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente…», prosegue chiedendo al governo un intervento mirato e propone qualche soluzione per migliorare le cose.

Questo mio intervento – che rielabora ampliandolo un mio articolo uscito sul supplemento culturale del «Sole 24 Ore» (13.2.2017) – nasce in margine alla discussione seguìta a quella lettera. Comincia con un frammento di vita vissuta: la promozione, per mio sfinimento, di uno studente che, non essendo in grado di scrivere decentemente in italiano, non meritava di essere promosso. Naturalmente – lo dico perché qualche sciocco si è indignato – il frammento di vita vissuta è inventato (ma non per questo meno aderente alla realtà). Considerazioni analoghe a quelle svolte qui si trovano in un eccellente articolo di Rebecca Schuman uscito il 13 dicembre 2013 sulla rivista online «Slate»: The End of the College Essay. Schuman sostiene che insegnare a scrivere bene a tutti o anche solo alla maggioranza degli studenti che vanno al college è, oltre che impossibile, inutile, perché non è ormai una delle abilità che contino di più nel mercato del lavoro; e che bisognerebbe puntare su altre abilità e conoscenze. In sostanza, questa è anche la mia opinione.

Tra i colpevoli della notevole inabilità alla scrittura di buona parte degli studenti italiani denunciata nella lettera dei 600 docenti universitari ci sono anch’io.

Ho appena messo 18 al compito scritto di uno studente della laurea magistrale in Lettere (quinto anno di università) che meritava invece di essere bocciato perché, a parte conoscere maluccio il programma, ha grosse difficoltà nello scrivere: mette male la punteggiatura, usa i verbi sbagliati, confonde le preposizioni (scrive per esempio che la squadra ha l’intenzione a partecipare, anziché di partecipare), non sa fare un riassunto, nel senso che invece di riassumere l’intero brano assegnato sintetizzandone il contenuto lo riassume frase per frase: «L’autore di questo brano dice che… Poi dice che… Poi dice che…», e così via. Lo studente che io adesso promuovo potrebbe prima o poi diventare un insegnante, e con un insegnante simile i suoi futuri studenti certamente non impareranno a scrivere (ci si potrebbe domandare: può questo aspirante insegnante imparare a scrivere nei prossimi anni, tra il suo quinto anno di università e la sua eventuale, speriamo scongiurabile, entrata in servizio? No, non può, non s’impara a scrivere a ventitré anni). E allora perché l’ho promosso? Dato che si discute molto della cattiva scrittura degli studenti, mi pare che la risposta a questa domanda possa interessare tutti. Ma non c’è una sola risposta, ce ne sono molte, o meglio c’è una risposta che si complica, si sfrangia in tante risposte più piccole, una causa che si può scomporre in concause.

Diciamo intanto che lo studente a cui ho dato 18 ha ripetuto l’esame quattro volte. La quarta è andata meglio delle tre precedenti, nel senso che lo studente non ha smesso di impegnarsi: ha letto, ha studiato. Ma, quanto alla scrittura, non può fare più di così: avrebbe dovuto imparare a scrivere decentemente molti anni fa, ma non ha imparato, e adesso è tardi. Alla quarta volta l’ho promosso perché, come mi ha ripetuto fino alla nausea, il mio è «il suo ultimo esame», la tesi è già pronta da tempo, ed è una tesi che non riguarda la mia materia: lo studente si laureerà in storia contemporanea. Bocciarlo ancora (e poi ancora, e ancora) avrebbe voluto dire impedirgli di laurearsi, fargli buttare via gli studi di cinque anni, rovinargli l’esistenza. Tra l’altro, lo studente non è affatto sciocco, e ha un libretto più che dignitoso. Non sa scrivere in un italiano decente, ma ha una media del 27-28, alcuni 30. Esami orali, voti in parte anche meritati. Di fatto, il mio è uno dei non molti esami scritti che ci siano a Lettere; i pochi altri sono test a crocette, o sono esami scritti in cui il docente (legittimamente?) bada più al contenuto che alla forma. Ma insomma, alla quarta volta – lo studente è civile, è anche, ripeto, intelligente – non me la sono sentita di bocciarlo di nuovo, e gli ho regalato un voto.

Quattro volte? Sì, perché l’università italiana è quel luogo felice in cui gli studenti possono ripetere lo stesso esame virtualmente all’infinito. Tre sessioni l’anno, uno o due appelli a sessione, più eventuali sessioni straordinarie: i miei studenti possono, come si dice, «tentare» il mio esame cinque o sei volte l’anno, finché non lo passano (e infatti quattro non è il record: ci sono studenti che lo hanno ripetuto sei, sette volte). In altre nazioni, chi viene bocciato all’esame per due volte deve ripetere l’intero anno; in alcune, una pluri-bocciatura comporta l’espulsione dall’università. Non in Italia. In Italia, una volta entrati, si ha il diritto di ripetere gli esami quante volte si vuole, così come si ha il diritto di non frequentare le lezioni. È la libertà.

Una volta entrati, ho detto, e qui sta l’altro problema, perché la porta dei dipartimenti di Lettere, a differenza di quella – poniamo – delle facoltà di Medicina, è sempre aperta. Ci sono in alcuni atenei, come mini-deterrenti, dei test d’ingresso, ma sono test che hanno l’obiettivo di permettere allo studente di autovalutarsi, di capire se quella è davvero la sua strada, più che di stabilire chi può frequentare i corsi e chi non può farlo. Di fatto, è normale leggere, nei bandi, che «l’esito del test non preclude la successiva immatricolazione al Corso di Laurea» (cito dal sito dell’Università di Bologna); e di fatto accade spesso che a Lettere finiscano per iscriversi ragazzi e ragazze che non hanno passato l’esame d’ammissione a corsi universitari o para-universitari più selettivi ma di tutt’altra indole, come Fisioterapia. Lettere è un ripiego, magari momentaneo, in attesa di riprovare il test di Fisioterapia.

Perché questa generosità, questa politica di accoglienza erga omnes? Per varie ragioni. La prima è che non si può mettere il numero chiuso a tutti gli indirizzi di studio, altrimenti molti studenti non saprebbero che fare, dopo le superiori. A differenza dei corsi di Medicina o di Fisioterapia, i corsi di Lettere e Filosofia non hanno bisogno di laboratori, perciò non esistono ragioni oggettive che impongano un filtro agli iscritti: dove si formano venti latinisti – questa la ratio (non molto razionale, in verità) – se ne possono formare quaranta. La seconda è che gli studi umanistici sono spesso intesi come una sorta di viatico all’emancipazione personale, non solo cioè un percorso professionalizzante ma l’occasione per una crescita culturale, per migliorare se stessi: negare questa chance a studenti magari non manifestamente vocati alla carriera di intellettuali ma volenterosi, zelanti, davvero capaci di trarre profitto da lezioni su Aristotele, Shakespeare, Michelangelo, può apparire ingiusto, anche odioso. La terza, la più importante, è che qualsiasi università ha tutto l’interesse ad avere – nei limiti (assai elastici) imposti dalle sue strutture, e dall’ampiezza del suo corpo docente – il maggior numero possibile di studenti, un po’ perché gli studenti pagano le tasse e un po’ (soprattutto) perché il ministero dell’Istruzione finanzia le università in proporzione al numero dei loro iscritti. Pochi studenti vogliono dire pochi soldi per aprire corsi di studio, assumere docenti, reclutare giovani ricercatori, organizzare congressi eccetera.

Questa spiegabile politica delle «porte aperte» ha il suo prezzo: a Lettere s’iscrivono molti studenti che non avrebbero bisogno di fare l’università ma di fare o rifare un buon liceo, e che – tra le altre cose – non sanno scrivere in italiano perché nessuno glielo ha mai insegnato. Lo studente a cui ho dato 18 è uno dei tanti: nelle sue condizioni, o peggio, si trova la maggior parte degli studenti che s’iscrivono a Lettere. Bocciarli tutti? È quasi impossibile. 1) Perché bocciare a ripetizione la metà o più dei candidati all’esame di Letteratura italiana vorrebbe dire in pratica bloccare le carriere di decine e decine di studenti, con ovvie ripercussioni sulla vita dell’intero dipartimento. 2) Perché le università vengono premiate dal ministero anche in ragione della rapidità con cui gli studenti concludono i loro studi, cioè arrivano alla tesi: vale a dire che le università sono fortemente motivate a licenziare in fretta i loro studenti, a non avere fuoricorso; e i docenti sono tacitamente invitati ad aderire a questa policy. È un principio simile al No Child Left Behind, salvo il fatto che qui i children hanno intorno ai vent’anni, e non lasciarli indietro va soprattutto nell’interesse dell’ente che eroga il servizio, non in quello della comunità che lo finanzia. 3) Perché bocciare qualcuno perché non sa scrivere non è così facile. Abituati a «badare al contenuto e non alla forma», molti studenti non riescono a capire perché io dia tanta importanza ai loro errori o alla loro sciatteria nello scrivere. Se anche lo capiscono, se arrivano ad ammettere che la forma è importante, possono non capire perché ciò che scrivono non va bene, o possono obiettare che si tratta di errori veniali, di pura distrazione, che non giustificano la bocciatura. Offesi da questa ingiusta persecuzione, possono, a norma di regolamento, rivolgersi al «garante degli studenti» o al direttore di dipartimento o al rettore per chiedere di fare l’esame (oralmente) con un altro docente della stessa materia. Supereranno l’esame, si laureeranno; e alcuni andranno a insegnare.

Tutta questa spiegazione per dire che una delle ragioni per cui gli studenti non sanno scrivere (insieme alla disaffezione alla lettura, al contagio del linguaggio affrettato degli sms e di Facebook, alla prevalenza del visivo sullo scritto) è che non sanno scrivere molti dei laureati in Lettere che sono andati a insegnare nelle scuole, laureati che non possono ovviamente insegnare ad altri ciò che loro stessi non sanno fare. Questo accade perché, come ho cercato di spiegare, tutti gli attori coinvolti (gli studenti, le famiglie, i docenti universitari, l’amministrazione universitaria) hanno interesse a far sì che le cose vadano in questo modo, ragion per cui non si vede proprio come sia possibile uscire da questa situazione, salvo un ripensamento complessivo della formazione scolastica e universitaria, con enormi investimenti e progetti di medio-lungo periodo che ignorino l’utilità immediata e le mode: niente che sia realistico aspettarsi (l’idea che, come recita il manifesto steso dal «Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità», la salvezza possa venire da «una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari» mi pare molto ingenua).

Oppure no? La soluzione potrebbe arrivare, sta già arrivando forse, da tutt’altra direzione, il nodo potrebbe essere tagliato anziché sciolto. Provo a spiegarmi.

La competenza nella scrittura, il saper scrivere decentemente, declina anche per una ragione molto semplice e concreta, una ragione che – magari inconsciamente – è ben chiara agli studenti che hanno fretta di laurearsi (e più ancora alle loro famiglie, che li mantengono), e cioè che saper scrivere decentemente, alla fine, non è così importante. Lo era senz’altro nell’Epoca della Scarsità, quando coloro che avevano accesso alla sfera pubblica erano pochi, e soprattutto quando il sapere tecnico-scientifico era percepito come meno rilevante rispetto a quella infarinatura umanistica che dava accesso alle professioni di prestigio sia nel settore pubblico sia in quello privato, un’infarinatura della quale il saper scrivere non bene, magari, ma «elegante» costituiva una parte non secondaria (che poi l’elegante confliggesse spesso con il bene, onde l’atrocissimo bellettrismo italiano, è un altro discorso). Era un saper scrivere che implicava, prima ancora della cura nello stile, la calligrafia (abolita come materia alle elementari nel 1985, quando Disegno e scrittura diventano Educazione all’immagine) e la consapevolezza di come andava strutturato un testo «ben fatto» (accapo, rientri, maiuscole, corsivi, formule protocollari ed escatocollari ecc.). Non è invece molto importante, saper scrivere, nell’Epoca dell’Abbondanza, quando ogni individuo ha infinite possibilità di scrivere e di essere letto da un pubblico infinitamente più ampio di quello sul quale potevano contare gli scrittori del passato. Dato che lo scrivere (e anche lo scrivere per un pubblico) è diventato un’attività ordinaria come parlare o come leggere, molti di coloro che scrivono sono indifferenti alle regole della buona forma, o non le hanno mai veramente imparate. Per esempio. Scrivere direttamente al computer è una cosa tanto normale, per gli studenti di oggi, che far loro osservare che sarebbe meglio scrivere prima su carta, e solo in un secondo tempo passare alla «bella» sullo schermo, suona come una bizzarria. Di fatto, è una raccomandazione che faccio spesso ai miei studenti, ed è significativo che, come mi spiegano, nessun altro – genitore o insegnante – gliel’abbia mai fatta prima. Si pensa evidentemente che i «nativi digitali» siano così abituati al pc da essere in grado di scrivere direttamente su schermo: ma basta leggere quello che scrivono per capire che non è così. O meglio, basta leggere quello che scrivono se chi legge è in grado di distinguere una frase corretta da una frase scorretta, e una frase ben congegnata da una frase sbilenca: una competenza che, per le ragioni che ho detto, manca a molti insegnanti.

Ma non si scrive peggio perché si scrive di più, o più in fretta. Si scrive peggio soprattutto perché l’infarinatura umanistica che era tenuta in gran conto fino a qualche generazione fa è diventata secondaria, a fronte di altre competenze, o a fronte di niente, ed è per esempio perfettamente possibile entrare a far parte della «classe dirigente» senza aver letto dei libri e senza saper scrivere in italiano. Il deputato Alessandro Di Battista (laurea al Dams di Roma Tre), che aspira alla carica di presidente del Consiglio, o perlomeno di ministro, critica durante la trasmissione televisiva «DiMartedì» (La7, 24.1.2017) «coloro che hanno magari paura che potremo svelare alcune porcate reali e molto molto grandi che appunto inficiano lì, sulla carne dei cittadini italiani e sui diritti di tutti noi italiani». Evidentemente, nella sua formazione, Di Battista non ha investito molto sull’italiano parlato e scritto. Gli si può dare torto, considerando la carriera che ha fatto? E del resto: quale messaggio, quale idea di formazione trapela dal progetto di Alternanza Scuola-Lavoro, che sostituisce alcune decine di ore curricolari con esperienze lavorative all’interno di aziende o uffici pubblici? Se davvero fossimo convinti che studiare con serietà e continuità discipline come l’italiano o la storia o la biologia o la matematica è il modo migliore per crescere e per trovarsi un lavoro, accetteremmo davvero di farci rosicchiare il tempo-scuola dalla gita d’istruzione, dal Campus sulla Legalità, dalla Settimana della Cittadinanza, dalla Giornata della Memoria, dallo stage in biblioteca? Càpita che la devozione continui anche quando il dio che si prega è morto da un pezzo.

Mancando, per così dire, la domanda sociale del prodotto, non c’è dunque neppure ragione di coltivarlo, ovvero non c’è ragione per non accontentarsi di un prodotto meno curato, e insomma di testi brutti, ma comunque comprensibili, anziché di testi ben scritti. Non coltivando il prodotto, non si coltiva neppure la sensibilità idonea ad apprezzarlo, ed ecco che non solo si fanno errori che passano inosservati tanto a chi scrive quanto a chi legge (cinquantenario dell’alluvione di Firenze, cartello commemorativo: gli «angeli del fango» salvarono il patrimonio artistico della città «lavorando giorno e notte in condizioni affatto favorevoli»), ma si generalizza anche il vizio italianissimo della «eleganza», della parola scelta là dove starebbe meglio la parola comune (stazione di Firenze: «Discendere dal lato opposto», anziché scendere), si adoperano a casaccio le preposizioni (articolo del noto giornalista X: «Ho avuto come un soprassalto a trovare… Una mattina mi telefonò a offrirmi un contratto»), si usano a sproposito le locuzioni idiomatiche (pagina di un manuale scolastico: «Angelica cadde a gambe levate»), e più in generale, senza che la sciatteria comporti veri e propri errori, si scrive male, e si accettano testi scritti male, anche là dove, data la sede, ci si aspetterebbe un po’ di cura:

Domande tante, risposte poche, confuse e contraddittorie. L’immigrazione, il terrorismo, l’Islam, la religione, la famiglia, la scuola, la sanità. Coriandoli di pensieri che il vento dell’impietosa quotidianità solleva e mischia. E poi la natura, l’arte, l’estetica. Financo il concetto di alienazione andrebbe ridiscusso. Marx, Freud e Marcuse non bastano per capire come mai in un vagone della metropolitana nessuno alza gli occhi dal proprio smartphone. Nella scala dell’evoluzione, dopo l’homo sapiens è arrivato l’homo cellularis. È l’intera civiltà in discussione. Una sfida immensa. Possibile che a raccoglierla siano Donald Trump, Marine Le Pen o Beppe Grillo? Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. Gramsci, se ci sei, batti un colpo.

Questo è il paragrafo conclusivo di un editoriale pubblicato sulla homepage di un grande quotidiano italiano. Non contiene errori «blu», ma l’insegnante abituato a correggere i temi degli studenti, a scuola o all’università, riconosce subito i tic dell’inesperienza o della sciatteria: le frasette di tre o quattro parole messe lì senza la minima elaborazione, e accostate l’una all’altra senza che tra loro sussista una vera implicazione logica; le frasi-slogan senza verbo («Una sfida immensa»); i cliché («Domande tante, risposte poche»); la parola inutilmente desueta e preziosa (financo); l’allusione ad autorità che un po’ c’entrano un po’ no (Marx, Freud, Marcuse); le citazioni trite usate come chiusa memorabile («Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà»); gli elenchi a rotta di collo, che vogliono dire tutto e niente («E poi la natura, l’arte, l’estetica»); le freddure insipide («dopo l’homo sapiens è arrivato l’homo cellularis»); le metafore barocche fuori controllo («Coriandoli di pensieri che il vento dell’impietosa quotidianità solleva e mischia»).

Alla cattiva scrittura corrisponde un cattivo contenuto? In questo caso sì, perché quelle che l’editorialista inanella in questo paragrafo sono tutte banalità. Ma non è detto che questa corrispondenza si dia sempre: l’articolo del noto giornalista X che ho citato sopra era mal scritto, ma conteneva osservazioni interessanti. Del resto, scrivere per il web non è come scrivere un articolo per un giornale di carta, e scrivere un articolo per un giornale di carta non è come scrivere un libro: è comprensibile che l’attenzione e la cura aumentino progressivamente, dal primo all’ultimo passaggio, a mano a mano che aumentano il tempo d’esecuzione e l’ipotetica «durata» del testo. È un fatto però che la gran parte dei testi che si scrivono e si leggono oggi si scrivono e si leggono direttamente su uno schermo. Il 18 gennaio 2017, sul quotidiano che riportava con grande evidenza l’appello allarmato dei «600 professori» sugli studenti che non sanno scrivere, ho letto questo titolo: «40 anni fa la morte di Re Cecconi, l’eroe della Lazio ucciso perché confuso per un ladro». A parte il misterioso epiteto di eroe (perché mai?), chi ha scritto il titolo non sa, evidentemente, che si può dire «preso per un ladro», ma non si può dire «confuso per un ladro». È il genere di errore che anni fa sarebbe stato inconcepibile, sulle pagine di un grande giornale. Ma oggi, in rete, i titoli cambiano ogni cinque minuti, e semplicemente non c’è tempo per verificare tutto, e non è economico farlo: i lettori e gli abbonati non diminuiscono per una preposizione sbagliata, dunque non sono cose per le quali abbia senso darsi molta pena.

Su un altro più decisivo piano, la tendenza, anche nelle scuole, ad affidarsi sempre più spesso all’ebook o alla rete, abolendo o marginalizzando i libri di testo, e obliterando così quella distinzione tra, in breve, libro di carta autorevole e testi effimeri da consumarsi su schermo (notizie, giochi, email, video), una distinzione che molti si sono sforzati di conservare in questa primissima età del web, non sembra poter avere se non un’influenza negativa sulla qualità media dell’espressione scritta dei futuri adulti. Questo non vuol dire che saper scrivere bene non possa restare, per alcuni, un traguardo da raggiungere, e un requisito da parte di datori di lavoro particolarmente esigenti; ma, parlando sempre di medie e non di picchi, di scriventi e non di scrittori, sono del parere che in futuro diventerà qualcosa di simile a una bella virtù privata, come saper dipingere o cantare bene. Ma perché parlare di futuro? Per molti versi, come mostrano gli esempi che ho citato, è già così. E il sole non ha smesso di sorgere, direbbero gli ottimisti: senza avere tutti i torti.

  Edoardo Lombardi Vallauri

Claudio Giunta spiega molto bene i motivi per cui gli italiani sono sempre meno capaci di scrivere. Io non cambierei quasi nulla di ciò che dice sull’argomento. Nel suo intervento c’è la diagnosi: gli italiani sanno scrivere sempre peggio; e una eccellente individuazione delle cause: si scrive molto, ma sempre meno in condizioni di accuratezza; si insegna meno a scrivere; la cultura umanistica è sempre meno diffusa. Invece non ci sono, intenzionalmente, dettagliate proposte di cura; e la ragione sta nell’ipotesi che la cura sia ormai superflua: scrivere in modo corretto e accurato potrebbe non essere più così necessario. Sempre più testi hanno natura volatile, perché non esistono sulla carta ma su siti web. Nelle versioni online, testi e titoli cambiano continuamente, e diventa antieconomico confezionare con accuratezza ciò che deve essere prodotto in fretta e avrà vita breve. Questa è la direzione in cui stiamo andando. E dunque, conclude Giunta, «questo non vuol dire che saper scrivere bene non possa restare, per alcuni, un traguardo da raggiungere, e un requisito da parte di datori di lavoro particolarmente esigenti; ma, parlando sempre di medie e non di picchi, di scriventi e non di scrittori, sono del parere che in futuro diventerà qualcosa di simile a una bella virtù privata, come saper dipingere o cantare bene. Ma perché parlare di futuro? Per molti versi, come mostrano gli esempi che ho citato, è già così. E il sole non ha smesso di sorgere, direbbero gli ottimisti: senza avere tutti i torti».

Si può essere d’accordo con questa conclusione, per quanto riguarda la scrittura. Quindi, se la scrittura fosse un’abilità che alimenta solo se stessa, potremmo felicemente accettare un sistema scolastico in cui insegnare a scrivere in maniera accurata non fosse più una priorità; perché – anche nella vita delle persone colte e importanti – saper scrivere in maniera accurata non sarà più una priorità.

Ma la scrittura non è un’abilità che alimenta solo se stessa. Ed è per questo che mi spetta il compito di aggiungere qualcosa alle assai vere conclusioni dell’amico Giunta.

Ci sono abilità che si sono perdute perché non servono più. Ad esempio, ben pochi oggi sanno accendere un fuoco nel bosco quando piove, perché a ben poco ormai serve saperlo fare. Finché questo tracciava la differenza tra scaldarsi e morire di freddo, tra mangiare e digiunare, o addirittura (come nei romanzi di Jack London) fra tenere lontane le belve ed esserne sbranati, tutti erano bravissimi ad accendere il fuoco, in qualsiasi condizione climatica, compreso nella neve. Oppure: se oggi pochissimi giovani sanno distinguere un frassino da un pioppo, è perché nelle nostre vite moderne questa differenza è diventata irrilevante. Con un ramo di frassino posso fare un ottimo arco (con il bosso, anche migliore), mentre il pioppo non ha la robustezza e l’elasticità necessarie, e produce archi patetici. Ma quanti sono oggi i ragazzini che si fabbricano archi per giocare nel bosco dietro casa (tacendo delle più antiche e serie funzioni degli archi)?

Addestrarsi e mantenersi in allenamento nell’accendere fuochi o nel riconoscere gli alberi consente di diventare – e restare – bravi in queste attività. Quindi se uno non ha bisogno di essere bravo a fare queste cose, non ha senso che ci si addestri. Se però essere bravo ad accendere fuochi avesse come effetto collaterale la bravura in qualcos’altro che invece rimane di attualità, converrebbe restare bravi ad accendere fuochi. Questo è appunto il caso della scrittura accurata.

Ciò che vorrei argomentare è che scrivere (e leggere) serve a diventare bravi a parlare. E parlare, forse a differenza dello scrivere impegnato, rimane una funzione di grande importanza nella vita non solo pubblica, ma anche privata e perfino intima, quindi meglio lo si fa e meglio si sta. Ebbene, si diventa capaci di parlare sia correttamente che in maniera efficace solo se si legge molta roba buona e si scrivono testi di una certa accuratezza. In altre parole, l’addestramento a parlare bene non consiste solo nel parlare molto e con impegno, ma richiede il supporto di queste due altre attività. Vediamo perché.

I tempi del parlato sono stretti. Un eloquio non lento può contenere dalle tre alle quattro parole al secondo, quindi qualche centinaio di parole al minuto. Questo fa sì che quando parliamo non abbiamo il tempo di fare molta attenzione a come confezioniamo le nostre frasi: una vera accuratezza infliggerebbe ai nostri interlocutori attese snervanti. Si cerca di garantire una sostanziale decenza, ma la priorità è «andare avanti». Il risultato è che le produzioni parlate sono meno accurate di quelle scritte. Ad esempio, la scelta delle parole da usare è necessariamente frettolosa: se la parola migliore non arriva, ci si deve rinunciare. E naturalmente c’è poca possibilità che mentre si parla ci si soffermi anche a riflettere sulle scelte che si sono fatte, per confermarle e «fissarle» se erano buone, per migliorarle in futuro se lo richiedono. Si applica ciò che si sa fare, ma non ci si può attardare a capitalizzare nuove evidenze. Insomma: parlando si parla, ma non ci si esercita granché per migliorare.

Ascoltare qualcuno che parla bene è di poco maggiore aiuto al miglioramento del nostro linguaggio, per lo stesso motivo. Benché ascoltare impegni meno che produrre, il ritmo a cui ci arriva il parlato degli altri dà a malapena il tempo di accorgersi di ciò che meriterebbe attenzione. La necessità di seguire il procedere del discorso impedisce di fatto quasi ogni riflessione e ripensamento sulla forma: c’è da capire il contenuto. Quindi nel contesto orale ogni atto di vero apprendimento linguistico è reso difficile. Si badi bene: di vero apprendimento. Restando sempre sul piano del lessico (ma poi vedremo che c’è molto di più da tenere in considerazione), ascoltare parole rende capaci di comprenderle. Se qualcuno usa una parola che ancora non conoscevo, il contesto mi permetterà di intuire che cosa significa e, se non alla prima, dopo alcuni incontri con quella parola io ne conoscerò il senso. Questo significa che quando la sento usare la capirò. Ma non significa affatto che io mi metterò a usarla. In termini tecnici, ne avrò la competenza passiva, ma non è detto che ne abbia la competenza attiva.

La conoscenza piena di una lingua è quella che noi ne abbiamo in forma attiva: cioè, le parole (e le strutture) che adoperiamo; non quelle che comprendiamo quando le adoperano gli altri. Non è proprio la stessa cosa, ma è chiaro che comprendere l’efficacia di tutti i colpi di Roger Federer non definisce la mia bravura a tennis: invece, so giocare a tennis nella misura in cui sono buoni i colpi che eseguo io scendendo in campo. Ebbene, uno studente universitario medio è in grado di comprendere circa 50-60.000 parole (sulle circa 100.000 che si trovano in un dizionario monovolume di medio peso, tipo Zingarelli o Disc), ma è lungi dall’adoperarle tutte. Studi sulle conversazioni quotidiane (tipicamente svolti contando le parole in registrazioni di dialoghi telefonici) mostrano che queste si svolgono tutte con 3.000-5.000 parole. Molti dei lettori di questo articolo comprenderanno senza problemi termini come vetusto, raggiante, energumeno o affabulare, ma quando parlano finiranno per non ricordarsene e per adoperarne sempre di più generici. Questo vale per molte migliaia di parole; ma anche per alcuni tempi e modi verbali: si pensi al caso arcinoto del congiuntivo, che tutti capiscono e nessuno adopera; e per alcune strutture sintattiche: chi usa davvero la causale introdotta da per con il verbo all’infinito? (Quella con cui Dante spiega perché Francesco d’Assisi avrebbe potuto non osare presentarsi davanti a Innocenzo III: per esser fi’ di Pietro Bernardone.)

Dunque, come si migliora la competenza della propria lingua? Trattando con la lingua in contesti favorevoli all’apprendimento. La lettura di testi ben scritti (il migliore esempio è la buona letteratura) è molto favorevole all’apprendimento, per due principali ragioni: perché il modello è ottimo e quindi imitarlo renderà migliori, e perché la lettura dà il tempo che l’ascolto non concede. Se chiacchiero con un amico (o ascolto un conferenziere) che parla come Flaubert, non avrò il tempo di trattenere che una parte infinitesimale della sua bravura; ma se leggo Flaubert, posso prendermi tutto il tempo che voglio per riflettere su come ha scelto bene le parole, la loro disposizione, i rapporti fra loro. Insomma, chi legge roba buona dedicando un’attenzione specifica alla qualità della lingua può migliorare molto il modo in cui parla.

Eppure, non è detto che la qualità del modello e la disponibilità di tempo siano sufficienti. Se manca la motivazione, non ci sarà l’attenzione di cui abbiamo parlato, e allora io leggerò Flaubert (o Manzoni, o qualunque altro autore) come ascolto un mio amico o un conferenziere: limitandomi a cercare di seguire il contenuto. Andrò veloce, capirò tutto, diventerò capace di intendere anche diverse nuove parole, ma la mia capacità di usarle, o di costruire la frase e il discorso, si sposterà di pochissimo verso il modello che ho davanti. A questo serve la scuola: non solo a far leggere, ma a far leggere con l’intenzione di imparare. Vale per la lettura guidata dall’insegnante, ma anche per il libro dato da leggere per le vacanze: se il consiglio di leggere arriva in un rapporto fra insegnante e alunno in cui diventare capaci di parlare meglio è uno scopo esplicitamente condiviso, servirà.

E qui si vede l’importanza di scrivere. L’abusato motto attribuito ossessivamente e non importa se correttamente a Confucio: «Ciò che sento, dimentico; Ciò che vedo, ricordo; Ciò che faccio, capisco» si applica anche al nostro problema. La motivazione a migliorare il proprio linguaggio, che può mancare anche del tutto nella lettura, difficilmente resta del tutto assente in chi scrive. Lì il compito è proprio quello: fare del proprio meglio con il linguaggio. E il tempo c’è. Ce n’è a profusione. Il compito di scrivere (a scuola come nei contesti professionali) si accompagna sempre a tempi molto più dilatati di quelli della produzione orale, e all’intenzione di far bene.

Se scrivendo voglio dire che qualcuno era molto contento, magari dopo aver scritto felice o felicissimo mi renderò conto che queste parole dicono abbastanza sullo stato interiore del mio personaggio, ma non ne descrivono l’aspetto esteriore, non lo fanno «vedere». E pensando a come far meglio mi verrà in mente raggiante, di cui avevo competenza passiva (sapevo bene che cosa significa), ma che di fatto non adoperavo mai. E allora lo scriverò: «Pino era raggiante». Da quel momento prenderò a scriverlo ogni volta che mi può servire; ma non solo: dato che è diventata una parola ad accesso reale nella mia testa, la userò anche parlando. Questo naturalmente accadrà anche con energumeno e vetusto, e con ogni parola che avrò reso veramente mia scrivendola.

Ma come dicevamo non è solo questione di lessico. Per riprendere alcuni degli esempi illuminanti che propone Giunta, se nelle mie buone letture non trovo preziosismi goffi ed inutili (e di sapore burocratico) come «discendere dal lato opposto», al momento di scrivere mi renderò conto che è meglio usare semplicemente scendere; e se questa sarà la mia scelta, andrà a migliorare stabilmente anche il mio parlato. Scrivendo, vaglierò con più attenzione reggenze da inesperti come «mi telefonò a offrirmi un contratto» o «ucciso perché confuso per un ladro»; e con ogni probabilità gli assai migliori «mi telefonò per scrivermi» e «confuso con un ladro» (oppure «scambiato per un ladro») diventeranno la regola anche quando parlo. Scrivendo mi salterà all’occhio che l’abituale «credo che è meglio andare» del parlato va sostituito da «credo che sia»; e diventerò capace di fare la scelta giusta anche quando parlo.

Tuttavia c’è una cosa forse ancora più importante della qualità della lingua, che senza scrivere non si può sviluppare: la capacità di organizzare argomentazioni complesse. Il difetto principale – davvero, il principale – che io riscontro quotidianamente nella stesura delle tesi di laurea da parte dei miei studenti coincide con uno dei problemi che più ne danneggiano anche le esposizioni orali e la risposta alle domande d’esame: è l’ordine di presentazione dei contenuti. Tipicamente, nello scrivere la tesi, lo studente introduce a pagina 5 delle affermazioni che risultano incomprensibili. S’intende, non a me che conosco già i contenuti di una tesi su quell’argomento; ma incomprensibili al lettore immaginario che, non sapendo ancora tutto, dovrebbe apprenderlo leggendo la tesi. Poi, a dire il vero, a pagina 7 o a pagina 9, compaiono le informazioni che mancavano per capire che cosa significava la frase di pagina 5. E infatti quando gli faccio notare che quella frase è incomprensibile, lo studente più sveglio ritiene di giustificarsi dicendo: «prof, ma poi lo spiego a pagina 9». Allora devo chiarirgli che un testo non è un secchiello in cui basta che «ci siano» tutti i detersivi e tutte le spazzole che mi servono per pulire il bagno, ma è una struttura che verrà processata in modo lineare, partendo dall’inizio e arrivando alla fine, e che finché non arriva a pagina 9 il lettore non sa che cosa ci troverà. In effetti un testo scritto non funziona se chi lo scrive non si fa una teoria della mente del destinatario, e non organizza l’informazione in modo da condurlo dallo stato iniziale (mancanza di informazioni) a quello finale (comprensione di tutte le informazioni contenute nel testo, e se possibile convinzione che quanto in esso sostenuto è vero). Tutte le idee che nella testa dello scrivente sono presenti in maniera simultanea devono incanalarsi nei limiti della comunicazione linguistica, che obbliga a trasformarle in una successione.

Quindi le informazioni vanno date nell’ordine giusto: quelle che sono propedeutiche ad altre le devono anche precedere. Non solo: quelle che dimostrano la verità di altre devono essere presentate avvertendo esplicitamente di interpretarle in quel senso, perché non è detto che questa relazione di coerenza sia autoevidente per il lettore; quelle che invece a parere dello scrivente sono in contrasto vanno esplicita- mente segnalate come tali, in modo che il lettore non si stupisca se le incontra entrambe, e vicine. Insomma, chi scrive deve dominare la coerenza testuale. Senza questo, il semplice fatto di usare un buon italiano non conduce a un testo utile.

Più la nostra argomentazione è complessa e composta di diversi contenuti, più avere questa abilità è indispensabile. E, si badi bene, anche nel parlato. Fare sempre solo discorsi semplicissimi, oppure di- ventare disordinati, confusi e poco chiari ogni volta che ci si avventura su un terreno più complesso, condanna alla subalternità. Ora, è chiaro che chi non scrive e legge poco, anche se parla molto, difficilmente svilupperà la capacità di programmare un’argomentazione complessa con le sue relazioni interne di causa-effetto, di contrasto e di precedenza. Continuerà anche tutta la vita a fare discorsetti semplici. Invece, per le ragioni di tempo e di attenzione che abbiamo esposte sopra, chi legge argomentazioni complesse avrà la possibilità di riflettere sul modo in cui sono strutturate e sui segnali con cui rendono chiari i collegamenti fra le loro parti; e, crucialmente, chi a sua volta scrive testi complessi si allenerà a costruire e «reggere» architetture logico-argomentative complesse. Ne avrà il tempo e la motivazione, specie se all’inizio lo farà sotto la guida di persone competenti. Questo allenamento è indispensabile anche in vista della capacità di fare discorsi orali, ma si trae solo dallo scrivere.

Una conferma a posteriori per questo ragionamento viene dal fatto che se ci si guarda un po’ intorno domandandosi chi sono le persone che parlano bene, ci si accorge che di solito a parlare bene sono quelli che scrivono molto. Chi non scrive testi accurati, più difficilmente diventa davvero bravo a parlare. Bisogna dunque trarne una indicazione importante per le politiche scolastiche: al limite, anche in un mondo in cui non si scrivesse più nulla, scrivere rimarrebbe indispensabile nella sua funzione di addestramento e allenamento al parlare.

Un po’ la stessa cosa succede in ambiti vicini: la traduzione dal greco e dal latino servirà in quanto tale a pochissimi fra coloro che la imparano a scuola; ma a tutti servirà come straordinario addestramento alla logica e al ragionamento rigoroso. E anche se la matematica della scuola sparisce per sempre dalle vite della stragrande maggioranza delle persone, però lascia loro in eredità la capacità di applicare ragiona- menti corretti a non importa che tipo di problema. Del resto, funziona un po’ tutto così in quelle «macchine» imperfette che siamo noi umani, dipendenti dall’esercizio della ripetizione per raggiungere passabili livelli di efficienza e di esecuzione automatica: le flessioni sulle gambe non sono un fine in sé, ma sfido chiunque a dire che farle non serve, se uno vuole imparare a sciare.

Claudio Giunta insegna Letteratura italiana all’Università di Trento ed è socio dell’Associazione «il Mulino». Tra i suoi libri per il Mulino, L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso (2008), Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo (2013), Essere #matteorenzi (2015).

Edoardo Lombardi Vallauri insegna Linguistica all’Università di Roma Tre. Fra le sue pubblicazioni con il Mulino, La linguistica in pratica (2010), Parlare l’italiano. Come usare meglio la nostra lingua (2012), Parole di giornata (con G. Moretti, 2015).

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