Di recente durante la correzione delle bozze di un libro mi è stato presentato come ovvio che un passo dove compariva la parola razza fosse dovuto a una svista, e che la parola fosse da eliminare, magari sostituendola con etnia. Naturalmente sapevo che il termine è sotto attacco da parte di frange interventiste, ma mi sembrava che la sua eliminazione o sopravvivenza fosse terreno di confronto fra opinioni. Quindi mi ha colpito che un editore importante ritenesse di non potersene neanche permettere la pubblicazione; e mi è suonato come un campanello d’allarme. Evidentemente su questa parola si sono addensati dei pregiudizi molto forti, che vale la pena di analizzare. Non possiamo considerare la questione in tutti i suoi aspetti, ma la tratteremo dal punto di vista di come funziona il linguaggio, e di come va lasciato funzionare se si vuole che ci serva davvero, anziché ingannarci incorporando pregiudizi; che è il filo conduttore di questa rubrica, ed è comunque una prospettiva rilevante in merito alla questione se usare o meno una parola. 

Il concetto di ‘razza’ per i diversi raggruppamenti genetici, ambientali e comunque fenotipici degli esseri umani è stato adoperato, oltre che da tutte le persone di cattiva e di buona volontà, anche in tutti i sistemi giuridici moderni, cominciando cronologicamente dagli Stati Uniti. In alcuni paesi lo stanno eliminando o l’hanno eliminato da parti del loro ordinamento, in altri paesi alcuni osservatori si sono pentiti di averlo eliminato (su questo si veda ad esempio un equilibrato e documentatissimo intervento di Federico Faloppa[1]). Naturalmente nei testi giuridici moderni il termine razza è usato proprio per bandire il razzismo.[2] Il concetto infatti, anche fuori dai testi di legge, serve sia ad essere razzisti che a non esserlo. Come a chi voglia organizzarsi per deforestare, ma anche per combattere la deforestazione, può servire la parola albero; e sia per inquinare che per combattere l’inquinamento può servire usare la parola ambiente; e sia per fare la guerra che per fare la pace può servire la parola alleanza. Insomma, usare una parola non significa automaticamente farne cattivo uso, a meno che la parola contenga in sé un’offesa, come crucco, terrone, frocio puttana.[3] E anche per queste, non sempre. 

La concezione ingenua, ma non per questo innocua, secondo cui la parola stessa sarebbe sempre segno di cattivo uso, si è diffusa con il politically correct. È tipico di un modo di porsi superficiale il sentenziare che una parola è negativa, giudicandola dunque con la pancia anziché con l’intelletto, solo perché quella parola ricorre spesso quando si verifica quel problema. L’ingenuo vede la parola, che è semplice da riconoscere, perché non ha l’acume di comprenderne la situazione d’uso, che è più complessa. Quindi gli sembra che sia la parola a veicolare il razzismo, e non riesce ad accorgersi che a veicolare il razzismo è altro: appartiene a una razza inferiore è razzista, mentre non esistono razze inferiori è il contrario. Il modo di (non) ragionare, paradossalmente, è proprio lo stesso di chi, sempre con impressioni di pancia, dal visibilissimo colore della pelle conclude che chi lo porta sia inferiore: se usasse l’intelletto per considerare più elementi, arriverebbe a conclusioni diverse. 

In questa ideologia che troppo spesso crede di affrontare i problemi rimuovendoli dal riferimento quotidiano attraverso il vietare parole, si vuole proibire anche razza. Con che giustificazioni e con che effetto? 

Una motivazione oggi molto proposta per l’espulsione della parola razza riferita a quelle umane è il fatto che scientificamente (cioè geneticamente) le razze umane non hanno lo stesso fondamento di quelle così chiamate nel resto del mondo animale. Si tratta, naturalmente, di una differenza quantitativa: la gran parte delle visibili differenze tra le razze umane hanno proprio cause genetiche ed ereditarie. In altre parole, le differenze fra quelle che si sono sempre chiamate razze sono indubbiamente genetiche; ma geneticamente sono meno importanti di quelle che fanno parlare di razze per altri animali. 

Se dunque le razze umane sono geneticamente meno diverse delle razze animali, il termine razza fuorvierebbe, facendo credere a una differenza genetica maggiore di quella reale. Questo che cosa può cambiare dal punto di vista del razzismo? Forse che una maggiore differenza genetica giustificherebbe maggiori atteggiamenti discriminatori? Se la differenza genetica è maggiore si può discriminare, se è minore no? Possibile che i sostenitori dell’argomento genetico pensino questo? No: avremmo in loro i primi, i veri razzisti. 

Comunque stiamo tranquilli: le cose non vanno così. Forse che riconoscere nel labrador e nel pastore tedesco due razze diverse porta le masse a ritenere che una sia superiore all’altra? E quale razza di gatti è superiore, il siamese o il persiano? 

In realtà, non è importante stabilire se le differenze genetiche fra le popolazioni umane siano sufficienti o meno a parlare di diverse razze; anche perché come è ovvio la decisione su dove porre il confine terminologico è una decisione almeno altrettanto ideologica che scientifica. La ragione per cui questo argomento non vale niente è più radicale: il criterio per usare le parole non è quasi mai che vi sia una definizione scientifica alla base. Il criterio per l’esistenza delle parole è che vi sia fra i parlanti che le adoperano una diffusa capacità di riconoscerne il referente. Ebbene, se non ci riescono i genetisti, invece a riconoscere le razze ci riescono tutti gli altri. Anche un bambino di quattro anni si accorge che ci sono persone di razze diverse, ad esempio europei, africani e asiatici. Dal punto di vista della riconoscibilità le razze esistono eccome. Quindi, ai fini della legittimità di dedicare al concetto una parola, esistono più che abbastanza. Né ha alcuna serietà linguistica l’argomento che la distinzione fra le razze non è netta perché si passa dall’una all’altra secondo una variazione continua. Questo vale anche fra tazze e bicchieri o fra sedie e sgabelli, e perfino tra frutta e verdura: ci sono sempre cose che stanno più vicine al centro tipico di una categoria (nella frutta la mela e la pesca, nella verdura gli spinaci e il radicchio) e cose che sono un po’ a metà fra le due (il pomodoro, l’oliva, la zucchina); ma sarebbe assurdo rinunciare alle parole frutto/frutta verdura/verdure per un simile motivo.[4]

Più in generale, per dare nome a qualcosa è sufficiente che ci rendiamo conto di quella cosa. Ed è bene che sia possibile nominare le cose di cui ci accorgiamo. Poiché ci accorgiamo che esistono i tavoli e le sedie, le scatole e i barattoli, le montagne e le colline, i mucchi e le cataste, gli innamoramenti e la stanchezza, è bene poter usare parole per riferirci ad essi. Anche se alla base della loro riconoscibilità non c’è nessuna rilevante caratteristica genetica, né una distinzione scientifica di alcun genere. 

Ci mancherebbe che ora ogni volta che diciamo braccio fossimo tutti obbligati a intendere solo la parte dal gomito in giù, perché in anatomia e ortopedia ci si regola così. La giustificazione genetica del rifiuto della parola razza è del tutto posticcia. Muove da un partito preso ideologico (più precisamente, una forma di cattiva coscienza), e cercando argomenti più seri gli sembra di procurarseli nella fortunata coincidenza che in genetica si trova qualcosa che potrebbe essere scambiato per una giustificazione. La pretestuosità è evidente: per nessuna delle decine di migliaia di parole che usiamo si cerca una giustificazione scientifica, in mancanza della quale si sentenzi che occorre cancellare quella parola. 

Si potrebbe dire, come fanno molti, che la parola in questione va comunque evitata per motivi pratici e psicologici: per incoraggiare comunque ad abbandonarne le conseguenze discriminatorie. Ma questo è forse la parte peggiore di tutta l’ideologia che sta dietro alla proposta di bandire razza, e come lei altre parole incolpate di cose che non dipendono affatto da loro. Infatti, dire che per non essere razzisti sia necessario evitare la parola, significa dire che per non discriminare in base a differenze occorra fingere che le differenze non ci siano. Invece, la cosa desiderabile è che vedendo le differenze, e riconoscendo che ci sono, non si discrimini. Che civiltà saremmo, se fossimo capaci di non discriminare solo l’uguale, e quindi per non discriminare il diverso dovessimo fingere che sia uguale? Davvero eliminiamo il razzismo, se per non discriminare l’altro abbiamo bisogno di credere che le razze non esistono, cioè che il motivo per non discriminare una persona è che… appartiene alla mia razzaInsomma, il non razzismo che hanno in mente queste persone sarebbe il rispetto per la mia razza. Mamma mia. Ebbene, questa è la via antirazzista proposta dal politically correct

Inoltre: ci riusciremmo? Può funzionare davvero, fingere che non ci siano differenze fra europei ed africani, come sistema per non discriminare gli uni o gli altri? Davvero è possibile negare l’evidenza? E poi, è una base eticamente valida, per eliminare la discriminazione, fingere che non ci sia la differenza? Per cui ogni volta che invece c’è una differenza cade il motivo per non discriminare? No, la base valida è maturare fino a capire che la differenza non giustifica la discriminazione

Su altro piano, per meglio capirci: saremmo contenti, se per eliminare la discriminazione della donna, l’unica via fosse convincere tutti che i sessi non esistono? (Be’, a dire il vero un certo femminismo ci sta provando – ma la realtà continua ad avere una forte presa sul resto del mondo). Potrebbe dunque essere utile bandire la parola sesso. Ma questo non implicherebbe che chi invece riconosce la differenza fra i sessi abbia per ciò stesso motivo di discriminare? No: ciò che desideriamo, invece, è che le donne siano riconosciute pienamente come donne, e che riconoscendole pienamente come donne non siano discriminate. Lo stesso per gli uomini. 

Oppure: la via per evitare discriminazioni nei confronti di chi ha un handicap / è disabile potrebbe essere quella di smettere di usare le parole handicap e disabile (operazione in pieno svolgimento per la prima!), e fingere che nessuno abbia nessuna minorazione? Non è meglio riconoscere con franchezza che l’handicap / la disabilità esistono, chiamarli con un qualsiasi nome e sforzarsi di capire che non giustificano discriminazioni? 

Per la razza è lo stesso. Io come appartenente a una razza non desidererei che per non discriminarmi si dovesse far finta che le differenze fra me e gli altri non esistano. Preferirei (molto) che gli altri riconoscessero chi sono, incluso ciò in cui ci differenziamo, ma questo non fosse una ragione per discriminarmi. Cioè, che non-discriminassero me, anziché non discriminare non-me

Queste pecette formali, cercando di ottenere il rispetto mediante la finzione della non differenza, allontanano, non avvicinano la soluzione dei problemi di discriminazione; perché non permettono che si proceda, e che procedendo si migliori, sulla difficile strada del pieno rispetto per la differenza, che è l’unica strada che serva a qualcosa. 

Si noti, inoltre, che l’innocenza di razza è ancora più limpida di quella di termini che designano categorie a rischio di discriminazione: riguardo a cieco, che io favorirei rispetto all’untuoso non vedente, si può sempre dire che qualcuno lo usi in modo dispregiativo. La ragione (l’unica, invero) per essere diffidenti nei confronti di negro è che, a forza di sbandierare ideologicamente che usarlo sarebbe razzista (come se si trattasse dell’inglese nigger), si sta riuscendo a trasformarlo (nella mente di tutti gli obbedienti a chi fa la voce più grossa) in un termine razzista. Perfino dell’assai neutro e quasi tecnico meridionale si può sostenere che porti con sé un velo dispregiativo. Marazza non può proprio essere scambiato per un termine dispregiativo, perché non ne designa nessuna in particolare. Cioè, anche ad essere razzisti nel midollo, il termine che si usa è sempre razza, sia per disprezzare l’aborrita razza inferiore che per esaltare la squisitissima propria. E non c’è davvero niente di dispregiativo in un cavallo di razza, sia letteralmente che per metafora. 

Riassumendo, dica il lettore: è razzista constatare che vi sono differenze somatiche largamente riconoscibili fra gruppi umani? Cioè, siamo al punto che è razzista riconoscere la verità? Oppure, piuttosto, è razzista dire che su queste riconoscibili differenze si possano o debbano fondare delle discriminazioni? 

Specularmente: per non essere razzisti occorre negare la verità, e cioè negare che le differenze somatiche di origine genetica fra gruppi umani li rendono riconoscibili al pari di molte altre cose a cui diamo dei nomi? Oppure, piuttosto, non essere razzisti significa dire che da quelle riconoscibili differenze non deve dipendere alcuna discriminazione? 

Comunque, poiché le cose designate fino a ieri come razze si ostinano a esistere anche rimuovendo la parola, e poiché, come un po’ di tutte le cose che esistono, può servire poterne parlare, ci si accorge che occorre dotarsi di termini per continuare a farlo. Ed ecco il proliferare di etnia al posto di razza, come se così il problema fosse eliminato. Oppure stirpe, che fu proposto già in sede di Assemblea Costituente, e giustamente scartato perché di senso diverso. A che cosa potrebbe mai servire chiamare la stessa cosa con un termine diverso? Chi vuole usare etnia faccia pure, anche se è impreciso perché significa una cosa diversa. Ma non tratti da razziste le persone di buona volontà che sanno essere inclusive nella realtà, e chiamano le cose con il loro nome. I razzisti diventeranno buoni perché diranno sporca etnia inferiore? Noi non razzisti saremo più buoni perché invece che è sbagliato discriminare in base alla razza diremo che è sbagliato discriminare in base all’etnia? Se l’atteggiamento razzista verso un gruppo diverso non ci fosse più, cambiare parola sarebbe inutile. Se l’atteggiamento razzista verso quel gruppo ci fosse ancora, sarebbe vano. 

[1] Federico Faloppa, Rimuovere razza dalla costituzione? Alcune considerazioni linguistiche, in No razza – sì cittadinanza, a cura di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi, Pavia, Collegio Ghislieri, 2017, pp. 157-178.
[2] Ad esempio, come segnala Faloppa (cit.), durante i lavori dell’Assemblea Costituente Palmiro Togliatti sostenne che conveniva usare razza nella Costituzione proprio per “dimostrare che si vuole ripudiare quella politica razziale che il fascismo aveva instaurato”.
[3] Vedi un’analoga discussione su negro, in questa stessa rubrica, e la parte iniziale di Lo stigma della prostituta e l’ipocrisia della cultura cattolica dominante, in Micromega 6, 2020.
[4] Che le parole designino molto raramente categorie di enti nettamente separate fra loro è acquisizione definitiva della psicologia sperimentale e della linguistica cognitiva, e dopo queste del buon senso. Chi fosse curioso di approfondire può fare una ricognizione della cosiddetta Teoria dei Prototipi, di cui la principale promotrice è stata la studiosa americana Eleanor Rosch intorno alla metà degli anni 1970.

Lascia un commento