Il lettore Massimiliano Malerba si è trovato a discutere animatamente con una persona convinta che si possa dire non hai idea di cosa stai parlando, in cui vede un uso transitivo del verbo parlare, che interpreta come “all’inglese”. Ci chiede se non si dovrebbe dire, in buon italiano, non hai idea di ciò di cui stai parlando.
Quella suggerita dal lettore è una possibile interpretazione dell’enunciato messo in questione: la sintassi soggiacente a non hai idea di cosa stai parlando potrebbe essere la stessa che in non hai idea di cosa stai mangiando. Se così fosse, si tratterebbe di una struttura forse simile a quella dell’inglese you have no idea what you are talking about, ma certo non identica, perché l’inglese evita di preferenza la congiunzione of (equivalente del nostro di), e anche in inglese il verbo che meglio traduce parlare, cioè to talk, è intransitivo: to talk about something, non *to talk something. I verba dicendi transitivi, in inglese (to say, to tell), si comportano piuttosto come l’italiano dire, per il quale una sintassi come quella in questione è regolare: non hai idea di (che) cosa stai dicendo (oppure, con un congiuntivo non obbligatorio, a esprimere più marcatamente l’incertezza da parte di chi ricopre la seconda persona: non hai idea di cosa tu stia dicendo). Insomma, in questo caso l’influsso dell’inglese non sarebbe da chiamare in causa. Tuttavia, è ragionevole dubitare anche della premessa che l’esempio evocato dal lettore manifesti una sintassi transitiva del verbo parlare. Vediamo perché.
L’alternativa correttamente suggerita dal lettore, non hai idea di ciò di cui stai parlando, presenta per i parlanti lo svantaggio di risultare piuttosto complessa, e di contenere una ripetizione (ancorché parziale) che può disturbare: di ciò di cui. Soprattutto nel parlato, gli utenti della lingua hanno la tendenza a preferire, se possibile, strutture semplici a strutture complesse, e a evitare le ripetizioni. In questo caso, la semplificazione può consistere nell’eliminare la sequenza, usando un pronome solo. In altre parole, anziché
(1) non hai idea di ciò che stai dicendo,
si può preferire
(2) non hai idea di cosa stai dicendo,
dove costruendo la secondaria come una interrogativa indiretta l’interrogativo cosa cumula su di sé le due funzioni del dimostrativo e del relativo. Tutto bene e tutto facile, se il verbo è transitivo. Ma se il verbo, come appunto parlare, richiede una preposizione? Allora a rigore (2) dovrebbe diventare:
(3) non hai idea di di cosa stai parlando,
con una sequenza di due preposizioni identiche, una retta da non avere idea, l’altra retta da parlare. Questo ripugna a qualsiasi parlante, e quindi viene evitato. Perciò, fra la Scilla costituita da di ciò di cui e la Cariddi costituita da di di cosa, molti parlanti preferiscono passare nel mezzo semplificando la seconda, con eliminazione di una delle due preposizioni identiche, le cui funzioni rimangono tutte affidate alla superstite, producendo di fatto quello che in sintassi e in retorica (dove a volte, in casi però diversi da questo, è ricercato) si chiama – con termine greco – un costrutto apò koinoù (pronuncia: apò koinù, ‘in comune’), cioè una costruzione nella quale un elemento (preposizione, pronome, aggettivo, ecc.) può essere riferito o connesso grammaticalmente a due diversi elementi della stessa frase semplice o complessa:
(4) non hai idea di cosa stai parlando.
Non c’è dubbio che in linea di principio una simile semplificazione viola la norma, perché in (4) manca una preposizione. Ma la necessità di evitare le due preposizioni in sequenza ne fa una violazione utile, quindi spesso adottata, e percepita come meno grave o addirittura accettabile. A riprova di questo, si può osservare che casi del genere si verificano anche con due preposizioni diverse (i prossimi esempi e la loro spiegazione sono tratti da Edoardo Lombardi Vallauri, Estetica e prescrizione (grammaticale), in Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, Cedam – Wolters Kluwer Italia, 2016, pp. 761-774):
(5) non hai idea di a chi stai parlando.
(6) non hai idea di con chi stai parlando.
(7) non hai idea di per chi stai parlando.
Lo stesso accade in dipendenza da altri verbi, come si può vedere dagli esempi che diamo qui sotto (reintroducendo noi la preposizione cancellata), tutti tratti da testi di scriventi colti; come si vede, anche per preposizioni diverse da di. Presentiamo prima alcuni casi in cui si cancella una di due preposizioni identiche (nel caso di due preposizioni uguali, qui presentiamo sempre come cancellata la prima delle due, ma questo è tutt’altro che pacifico e, come osserviamo in Lombardi Vallauri, Estetica, cit., sarebbe interessante indagare le ragioni sintattiche e semantiche che presiedono alla scelta di quale delle due preposizioni viene cancellata, sia quando sono diverse, sia – ancora di più – quando sono uguali):
(8) Si regolano a seconda di di quanto tempo hanno bisogno.
(9) Se ti offendi di di chi mi sono innamorata, non possiamo nemmeno parlare.
(10) Tutto dipende da da chi provengono i soldi.
(11) Sta tornando da da dove stai tornando anche tu.
(12) Il ritardo è dovuto a a quale binario arriva.
(13) Mi piace fare regali a a chi voglio bene.
E mostriamo poi la semplificazione di sequenze di due preposizioni diverse:
(14) Dipende da di che bancarelle si tratta.
(15) Non ti offendere di da chi l’ho avuto.
(16) L’utente impiega del tempo per la digitazione e può accorgersi di in quale conversazione si trova.
(17) La linguistica della Lingua 1 si occupa di ciò che un parlante conosce di una lingua e di da dove provenga tale conoscenza.
(18) il suo cuore sarà travolto da una tempesta, o rapito da una luce che sembra provenire da tutte le direzioni, oppure non si accorgerà distintamente di da che cosa venga rapito.
La semplificazione può riguardare anche la sequenza di una preposizione e di una congiunzione, se questa ha poco corpo fonetico al pari di molte preposizioni semplici. Ad esempio, questo è frequente con il verbo dipende, che regge un da spesso cancellato davanti al se che introduce la frase retta:
(19) Dipende da se si vuole arrivare in anticipo o in ritardo.
(20) Dipende da a che cosa serve.
Altre congiunzioni possono subire la stessa sorte, se capita che la sintassi ne generi due contigue. È il caso di questi due che, retti uno da oltre e uno da sapere, tutto sommato opportunamente semplificati in una chat:
(21) Ciao Roberto; io allora domani all’orto botanico verrei. Devo sapere qualcosa, oltre che che è alle 19?
Indubbiamente la semplificazione può sempre essere evitata nello scritto sorvegliato, dove si regolano a seconda di di quanto tempo hanno bisogno può essere sostituito ad esempio da un più accurato si regolano in base a quanto tempo gli serve, o simili; ma nel parlato, in cui il tempo a disposizione per programmare l’enunciato è poco, il parlante può trovarsi all’ultimo momento di fronte al fatto che la sintassi che ha scelto gli impone di produrre due preposizioni (o congiunzioni) in sequenza, e a quel punto sopprimerne una è il rimedio meno spiacevole. Il problema si presenta anche con le moderne varietà di scambi comunicativi che usano il canale scritto agli stessi ritmi dell’oralità, come le chat. Questo potrebbe essere un fattore capace di favorire un maggiore affermarsi delle semplificazioni in questione nelle varietà scritte dell’italiano.
Al nostro lettore possiamo dunque rispondere che la struttura da lui segnalata non è esente da problemi di correttezza, anche se non si può affermare che siano dovuti all’influsso inglese, e nemmeno a un’interpretazione di parlare come transitivo. Si tratta di un tipo di semplificazione sintattica che, al presentarsi di una sequenza di due preposizioni, i parlanti e gli scriventi italiani fanno spesso, quando non hanno il tempo o la voglia di ricorrere a costruzioni che non generino il problema. Esprimersi sulla sua accettabilità non è facile, perché a una ricognizione sommaria si può dire che caratterizzi le produzioni di parlanti anche colti e per il resto detentori di un italiano corretto.
Anche di recente Gaetano Berruto, raccogliendo precedenti interventi di Manlio Cortelazzo, di Paolo D’Achille e di altri, nell’elencare i tratti dell’italiano popolare non include questo genere di fenomeni (cfr. Gaetano Berruto, Diatopia, diastratia e tratti diagnostici dell’italiano popolare, in Federica Guerini [a cura di], Italiano e dialetto bresciano in racconti di partigiani, Roma, Aracne, 2016, pp. 39-77; e anche – per quanto riguarda tratti di ristandardizzazione di origine in parte popolare, a Id., What is changing in Italian today? Phenomena of restandardization in syntax and morphology: an overview, in Massimo Cerruti – Claudia Crocco – Stefania Marzo [a cura di], Towards a new standard: theoretical and empirical studies on the restandardization of Italian, Berlin/Boston, De Gruyter, 2017, pp. 31-60). Da queste autorevoli fonti non ci viene dunque l’indicazione di considerarli come connotati diastraticamente; insomma, non sembrano caratterizzare stabilmente una varietà stigmatizzabile o meno corretta rispetto allo standard. Converrà dunque considerarli piuttosto come espedienti marcati, ma resi necessari da un “punto di sofferenza” della sintassi dell’italiano moderno, e quindi praticati in qualsiasi varietà della lingua, comprese quelle sociolinguisticamente alte.
Articolo originariamente pubblicato dall’Accademia della Crusca