Da alcuni decenni la chiesa cattolica ripete spesso e con energia le sue serie intenzioni di dialogo con le altre religioni, comprese le altre chiese cristiane. Forse lo ripete anche un po’ troppo spesso, ma bisogna ammettere che se non facesse così, tutti riterrebbero che il suo atteggiamento sia di sottovalutazione delle altre religioni e di estrema intransigenza nei confronti di ciò che predicano. Questo perché per secoli essa ha mantenuto proprio un tale atteggiamento, condannando con ossessiva precisione ogni idea in materia di fede che si discostasse anche poco dai dogmi che aveva deciso di sostenere, combattendo guerre di religione, e ribadendo che extra ecclesiam nulla salus, cioè che non poteva esserci salvezza per l’uomo fuori della chiesa di Roma. Dunque fa bene oggi a mettere (quasi) altrettanta energia nel propagandare la riconciliazione e il dialogo, se davvero, adesso, vuole che la riconciliazione e il dialogo ci siano.
Ma che cosa intende la chiesa per dialogo? La parola è usata in modo quanto meno fuorviante. In effetti, come si può dialogare con chi ha idee diverse dalle nostre a proposito di argomenti sui quali si è deciso di organizzare le proprie posizioni sotto forma di dogmi? Si potrebbe dialogare se anziché per dogmi immutabili e intoccabili si ragionasse per ipotesi, conclusioni provvisorie, sforzi di approfondimento volti a migliorare e correggere le proprie idee e le proprie cognizioni. E come può dialogare in materia di fede e di morale (che sono questioni centrali per ogni religione) una fonte che proprio in questa materia si dichiara niente meno che infallibile? Tacendo sugli atteggiamenti dei suoi predecessori [1], va riconosciuto che in diversi campi l’attuale papa fa mostra di molti dubbi, e addirittura di una specie di convinzione che poche cose si possano affermare in maniera assoluta; ma questo resta vernice, finché non si decide a trarne la più ovvia delle conseguenze: che va revocato il dogma dell’infallibilità, che tuttora torreggia a protezione di tutte le cose che hanno detto nei secoli i pontefici romani.
Probabilmente il desiderio di amicizia con le altre religioni è reale. C’è vera benevolenza, e vero desiderio di vivere in pace. Comunque la cosa non nuoce all’immagine pubblica della chiesa, anzi; e questo viene sentito come fondamentale. Solo che l’amicizia cercata è un’amicizia zoppa, perché basata sui sentimenti ma non sui contenuti. Fra due persone un’amicizia del genere può funzionare benissimo: si evita di mettere in mezzo fastidiose questioni teoriche, si sorvola sul fatto che si hanno fedi, convinzioni politiche e simpatie sportive diverse, e ci si vuole semplicemente bene. Ma le religioni non sono persone. Per una religione le questioni di fede, cioè di verità, sono centrali. Perché due religioni si possano dire in dialogo e in riavvicinamento non è sufficiente che i rispettivi capi si abbraccino sotto i riflettori, e nemmeno basta il fatto che non ci sia odio fra i rispettivi fedeli; due religioni possono dirsi in dialogo quando sono capaci di confrontarsi in maniera aperta, rispettosa e costruttiva sulle concezioni che hanno di cose come il mondo, l’aldilà e la morale, aiutandosi vicendevolmente a migliorare nella ricerca della verità, che è pur sempre unica.
Questo spiega i progressi microscopici che ha prodotto negli scorsi decenni il tanto pubblicato desiderio di dialogo e riavvicinamento. Al di là dei proclami mediatici e delle intitolazioni degli incontri interreligiosi o ecumenici di Assisi o della Moschea di Baku, nella sostanza, cioè per quanto riguarda i contenuti su cui si dovrebbe dialogare, la disponibilità al dialogo della chiesa cattolica [2] si poteva parafrasare circa così:
Cari amici delle altre religioni, la vostra visione della realtà, cioè quella che predicate ai vostri fedeli, è sbagliata, o per meglio dire è giusta solo quando coincide esattamente con ciò che predichiamo noi. Infatti noi abbiamo interamente ragione. Per esempio, voi buddisti non avete capito quasi niente, perché non vi siete accorti che Dio esiste, che è una trinità, che si è incarnato duemila anni fa in una vergine palestinese di nome Miriam, che è morto in croce ed è risorto tre giorni dopo per salvarci dai nostri peccati altrimenti saremmo tutti dannati anziché solo una parte, che si può mangiarlo in un’ostia consacrata, che tutto quanto riguarda il rapporto dell’uomo con la fede viene amministrato correttamente solo dalla chiesa di Roma, eccetera. Naturalmente se vi ostinate a non darci retta c’è il rischio concreto che Dio vi mandi all’inferno per l’eternità. Voi musulmani almeno avete capito, come gli ebrei, che Dio esiste ed è unico. Ma non avete capito che al tempo stesso non lo è, perché è trino. Quanto all’incarnazione, alla resurrezione e all’eucarestia, lasciamo perdere, siete proprio di coccio. Un po’ meglio, anzi molto meglio le chiese cristiane diverse dalla nostra, benché non riconoscano verità assolutamente incontrovertibili come il primato di Pietro o l’immacolata concezione di Maria. Ah, già, dimenticavamo gli induisti, che sono tanti e quindi ci stanno a cuore, ma hanno una fantasia eccessiva. Di stranezze da credere ne hanno inventate più di noi, ma con la differenza sostanziale che quelle inventate da noi corrispondono tutte esattamente alla verità, mentre le loro sono tutte superstizioni.
A questo punto – io credo – i nostri amici delle altre religioni sentivano che la voglia di dialogare li abbandonava. Ma i più volenterosi ci provavano lo stesso. E accettavano di mettersi a un tavolo, per vedere se magari qualcuna delle cose che credono loro poteva interessarci; e se noi eravamo disposti a mettere in discussione, per cominciare, qualcuna delle nostre più strane e più “periferiche”, qualcosa senza di cui la nostra fede non si snatura troppo. Chessò, si poteva cominciare col non escludere che Maria sia stata concepita uguale a tutti gli altri, anziché senza peccato originale? O che il peccato originale non esista proprio? Oppure che la stessa Maria, se non nel concepirlo, almeno nel partorire Gesù abbia perso la verginità?
La risposta fino al precedente pontificato era decisa: non se ne parla nemmeno. E non è per inimicizia verso di voi: figuratevi che neanche all’interno della nostra chiesa si possono mettere in dubbio queste cose. E nemmeno cose di minor momento, tipo la disciplina del matrimonio e del divorzio, oppure l’uso di anticoncezionali! Chi prova a discutere, se è un prete non fa carriera, se è un insegnante perde il posto, e così via. Fra l’altro, fa parte della nostra fede che il papa su questi argomenti è infallibile, quindi il dialogo va fatto senza mai contraddirlo.
Insomma, negli ultimi decenni il dialogo si poteva fare solo dando ragione ai cattolici, e dunque non si è fatto. Ci sono segni che le cose possano cambiare. Ma certo, perché la parola dialogo prenda anche nei rapporti fra le religioni lo stesso senso che ha in tutti gli altri contesti, occorrerebbe che dai segni estemporanei si passasse al cambiamento, cioè alla de-dogmatizzazione della fede. A cominciare dall’abolizione del dogma dell’infallibilità del papa, fino a tutti gli altri che rendono intoccabile il castello di invenzioni della fede cattolica. Su questa strada, a dire il vero, l’attuale papa non ha mosso neanche mezzo passo. Speriamo che in futuro ci riesca, perché altrimenti, con buona pace delle reiterate dichiarazioni di intenti, il dialogo (fra le religioni) dialogo non è.
[1] Per un confronto tra la forma e la sostanza dell’atteggiamento di papa Wojtyla e di papa Ratzinger sul dialogo interreligioso, cfr. ad es. E. Lombardi Vallauri, Capire la mente cattolica, Firenze, e Lettere, 2007, pp. 97-103.
[2] Le disponibilità al dialogo sui contenuti da parte delle altre religioni e chiese sono molto diverse fra loro: con tutta evidenza meno dogmatici, ad esempio, i buddisti e i cristiani evangelici; piuttosto rigidi (anche se con grandi differenze al loro interno) i musulmani.
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega