Questo breve intervento non pretende di essere altro che un riassunto, anche se con un taglio in parte nuovo, di ciò che è già stato detto sul tema da ben altri autori che il sottoscritto.
Democrazia è diventata una parola molto simile a quelle di cui si servono le religioni, nel senso che la parola e il suo oggetto sono stati sacralizzati, specularmente demonizzando tutto quello che se ne discosta. Lo scempio atroce dei totalitarismi novecenteschi di ogni colore l’ha resa obbligatoria. Per buone ragioni, dunque, democratico è diventato quasi per tutti un termine assolutamente positivo, mentre non democratico costituisce di per sé stesso un giudizio di condanna.
Ma la parola merita ancora di mantenere questo valore così assoluto, e chi la usa ha davvero il diritto di usarla?
Perché fosse così, la parola dovrebbe essere usata per parlare di situazioni e comportamenti in cui il potere (greco krátos) è esercitato dal popolo (greco dêmos) inteso come la totalità delle persone, per lo più attraverso suoi rappresentanti, secondo regole che diano la prevalenza alla maggioranza, e garantendo che questa non ne approfitti per schiacciare la minoranza. Le democrazie reali, però, non sempre sono questo. Cioè, gli oggetti a cui la parola viene riferita sono spesso dei sistemi politici e sociali in cui il potere non è esercitato davvero dal popolo. Sotto l’ombrello costituzionale di un regime democratico si nasconde spesso una situazione in cui il popolo non ha il potere; e non perché sia normativamente impedito dall’esercitarlo, ma perché non lo sa esercitare. Questo fa sì che usare termini come democrazia o democratico risulti spesso mistificatorio.
Chi formalmente è titolare di un potere può esercitarlo solo se, prima di tutto, è capace di scegliere. Per esempio, a un bambino si può dire che può decidere lui se appoggiare o non appoggiare l’orsetto di peluche sulla stufa; ma se il bambino non sa che la stufa brucia, userà il suo potere per determinare eventi che sono contro il suo interesse. Cioè, non sapendo abbastanza cose, godrà di un potere solo apparente, perché sarà padrone di prendere decisioni, ma non ne sarà capace. Ancora peggio, quando al bambino si dice che può decidere lui se mangiare il minestrone o il gelato, ma poi gli si racconta che mangiando il gelato farà arrabbiare l’uomo nero e quello verrà a prenderlo nel suo letto, il bambino non eserciterà il suo potere scegliendo ciò che preferisce, ma “sceglierà” ciò che preferisce chi lo ha condizionato.
Un popolo può dunque esercitare il potere se capisce abbastanza cose da non scegliere contro il proprio interesse, e se è abbastanza maturo da non essere facilmente ingannabile. Chiaramente queste condizioni si possono realizzare solo in parte: quindi a parità di regime costituzionale un paese è tanto più democratico quanto più le persone sono capaci di capire le conseguenze delle decisioni, e quanto più sono difficili da ingannare.
La prima cosa dipende in gran parte dal grado di istruzione. Più un corpo sociale è ignorante, meno è in grado di prevedere le conseguenze di decisioni importanti e complesse, perché non si rende conto delle catene di cause ed effetti che portano da una scelta politica ai suoi risultati. Ad esempio, può benissimo credere che le centrali idroelettriche e le piattaforme di estrazione del petrolio non abbiano un impatto ambientale negativo, e che quindi non occorra ridurre i propri consumi energetici per salvare dalla rovina l’ambiente naturale su cui la nostra vita si appoggia. Oppure, una comunità a maggioranza ignorante può convincersi che un paese come l’Italia possa campare riccamente di solo turismo, e che quindi convenga smantellare in buona parte il sistema nazionale dell’istruzione, perché non abbiamo bisogno di tecnici preparati ad alto livello.
Allo stesso tempo, e per le stesse ragioni, più le persone sono ignoranti più è facile che qualcuno riesca a convincerle con bugie e con slogan accattivanti ma privi di concretezza o di fattibilità. Inoltre, la possibilità che le persone vengano persuase a esercitare il loro potere di voto contro il proprio interesse aumenta se è possibile usare mezzi di persuasione potenti. E questo ha fatto sì che la modernità si rivelasse nemica della democrazia reale, perché la televisione è un mezzo straordinario per convincere le persone di fandonie. I ritmi veloci della televisione bandiscono i discorsi seri, trasformando il confronto fra idee e fra persone in un affrontarsi di slogan a effetto e di atteggiamenti piacioni. In televisione, convincere attraverso buoni argomenti è impresa difficile, e comunque perdente rispetto al compito, assai più remunerativo, di sedurre con un semplice “venire incontro” molto superficiale a ciò che le persone amano sentirsi dire. In buona misura, il web sta riproducendo gli stessi meccanismi, favorendo l’attecchire di semplificazioni abusive e di fake news disegnate per calzare a pennello sui pregiudizi ignoranti delle persone.
Ebbene, i politici che a parole si dichiarano democratici, cioè appunto tutti i politici, per esserlo anche nei fatti non possono accontentarsi di rispettare formalmente le regole della democrazia costituzionale. Se davvero avessero intenzioni democratiche, agirebbero in modo da massimizzare il potere di scelta degli elettori. Anziché per comode parole d’ordine, parlerebbero in modo onesto e chiaro, sforzandosi di entrare nella sostanza dei problemi. Il politico che svolge un vero ragionamento a partire da fatti veri è intrinsecamente democratico, perché cerca di mettere in mano alle persone gli strumenti per esercitare davvero il potere di scelta. Invece il politico che spara uno slogan è intrinsecamente antidemocratico, perché cerca di impedire alle persone di esercitare un vero potere di scelta. Per lui anche la parola democrazia è in realtà uno slogan cui non corrisponde realtà; cioè, la usa per parlare di un esercizio della politica che però lui stesso cerca di rendere ben diverso da quello che la parola ormai solo illusoriamente significa.
Fra questi due tipi di politico, chi prevale? Purtroppo – e qui sta forse il nucleo più centrale della crisi delle democrazie contemporanee – è tristemente vera la profezia amarissima con cui qualcuno ha rivalorizzato la splendida battuta sull’uomo con la pistola e sull’uomo col fucile, da Per un pugno di dollari di Sergio Leone: “Quando un uomo con un ragionamento incontra un uomo con uno slogan, l’uomo con il ragionamento è un uomo morto”. Quindi la presenza di politici che brandiscono slogan impedisce di acquisire un vero potere ai politici che vorrebbero costruire consenso fornendo argomenti validi. I politici veramente democratici, cioè quelli che cercano di fare l’interesse del popolo, vengono marginalizzati e perdono le elezioni, mentre quelli antidemocratici, che mirano a ottenere il consenso con qualsiasi mezzo, e per questo sono disposti a esautorare il popolo dal vero esercizio del potere di scelta, vincono le elezioni.
Questo non accadrebbe se la popolazione fosse sufficientemente preparata per accorgersi di quando la stanno ingannando con comode bugie. E in effetti non in tutti i paesi i politici piacioni prevalgono su quelli seri. In Scandinavia succede meno che in Italia. E anche in Germania. Né, anche da noi, i politici piacioni convincono proprio tutti. Ma da noi riescono a convincere la maggioranza, perché il corpo sociale non è sufficientemente istruito. E qui veniamo a un secondo aspetto in cui si può vedere la differenza fra una linea politica davvero democratica e una che non lo sia: è intrinsecamente democratico ogni sforzo che si fa per aumentare il livello di istruzione e di consapevolezza della popolazione, cioè per aumentare il suo potere di scelta reale; invece è intrinsecamente antidemocratico ogni sforzo che si fa per diminuirlo. Quasi altrettanto antidemocratico è il disinteresse per la questione.
Se ne trae questa conseguenza: i politici per cui democrazia non è una parola vuota, per raggiungere il potere potrebbero anche piegarsi ad adoperare mezzi di persuasione poco democratici, visto che nell’attuale situazione non si può raggiungerlo con mezzi davvero democratici; ma appena raggiunto il potere dovrebbero lavorare perché questo non possa accadere più. Cioè, dovrebbero mettere al primo posto di tutte le agende uno sforzo senza precedenti per dare al paese un sistema di istruzione che faccia crescere nel corpo sociale la capacità di esercitare il potere di scelta che gli spetta, senza più rimanere preda di politici che fanno il proprio interesse ingannando il paese. Questo significa dare la priorità economica alla scuola e all’università, al teatro, alle arti, alla divulgazione scientifica di buon livello, e a tutto ciò che contribuisce a elevare il livello intellettuale delle persone. Forse in un primo tempo spostare l’attenzione dal sistema di produzione di beni commerciabili potrà ridurre un po’ il PIL, ma a lungo termine una popolazione un po’ più somigliante a quella tedesca, olandese o svedese finirà per rivelarsi un toccasana anche per il PIL. E determinerà il ritorno a qualcosa che possa di nuovo chiamarsi, a pieno titolo e non solo pro forma, una democrazia.
Naturalmente, niente di tutto questo avviene. Chi governa l’Italia, da più di 30 anni continua a preferire tassi di istruzione e di maturità intellettuale che allontanino il rischio di una democrazia degna del suo nome, dove cioè il potere di scelta sia davvero nelle mani delle persone. Paradossalmente, ma ovviamente non per caso, proprio i politici che si dichiarano più “dalla parte del popolo”, sono quelli che adottano maggiormente strategie di semplificazione piaciona dei problemi, e di seduzione rivolta alla pancia, mirando ad atrofizzare lo spirito critico delle persone, e a privarle del loro effettivo potere di scelta. Quello che viene esplicitamente presentato come uno “stare dalla parte del popolo”, è in effetti uno sforzo efficace per neutralizzare la democrazia.
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega