Mentre scrivo, è in Italia per fare alcuni interventi in congressi scientifici lo psicologo e scienziato cognitivo statunitense Lawrence Barsalou, che è il maggior teorico di quelli che egli stesso ha proposto di chiamare concetti ad hoc.[1] Questi sono i concetti che creiamo sul momento, quando ci servono, a partire dal significato delle parole. Mentre la parola palestra, sul dizionario, ha un significato generale che le permette di riferirsi a qualsiasi palestra, nell’enunciato “vado in palestra” detto da uno di noi in un preciso momento, questa parola può prendere il senso ad hoc di “la palestra all’angolo, quella a cui sai che sono iscritto”. Così, mentre sul dizionario il cane è una specie animale, in un preciso contesto “il cane mi ha morso” potrà significare “il cane della segheria dove ero andato a prendere dei listelli”, oppure “quello degli amici da cui ero a cena”. 

Alcuni di questi concetti ad hoc, se risultano particolarmente frequenti, possono diventare accezioni universalmente riconosciute di una parola. Ad esempio, se dico di un collega che “non sempre è lucido, perché beve”, si capisce che sto intendendo: “beve molto, e cose alcoliche” (non semplicemente che beve; quello lo fanno tutti). Questo riguarda ancora più spesso espressioni fatte di più parole (le cosiddette polirematiche), che si dotano di un significato non totalmente deducibile dalla somma dei termini che le compongono, proprio perché servono ad esprimere concetti ad hoc divenuti molto ricorrenti. Per esempio, ferro da stiroper la verità non significa un ferro, ma un apparecchio fatto anche di ferro, con varie caratteristiche che lo rendono atto a stirare cose di stoffa. Oppure, ragazza madre non significa solo una ragazza che è madre, ma in particolare una che non è sposata, non sta più con il padre della sua prole, e che ha difficoltà pratiche connesse con questa situazione.

Un’espressione di questo tipo che sta guadagnando molto terreno nell’italiano di oggi è violenza sulle donne. Come altre locuzioni che esprimono concetti ad hoc, il suo significato non si desume dalla somma delle parti, perché non significa semplicemente “violenza sulle donne”, ma “violenza sulle donne da parte di uomini”. Lo stesso significato monodirezionale ha addirittura l’espressione apparentemente neutra violenza di genere. E anche una vera e propria parola creata ad hoc: femminicidio, che non significa “uccisione di femmina”, ma proprio “uccisione di femmina da parte di maschio”. La frequenza con cui i media usano queste espressioni produce l’impressione che vengano sempre adoparate con una specifica ragion d’essere, come “ragazza madre” o “ferro da stiro”; cioè per designare qualcosa che ha una sua delimitazione chiara nella realtà. Insomma, l’espressione genera l’impressione che quella degli uomini sulle donne (che va dai maltrattamenti all’assassinio) sia un tipo di violenza sempre ben distinta dagli altri tipi. Ad esempio da quella degli uomini sugli uomini, o da quella delle donne sugli uomini. E fa pensare a tutti che gli uomini usino la violenza soprattutto sulle donne.

Invece, mentre è così per la violenza sessuale, non è così per la violenza in generale. Se parliamo di violenza fisica, chi se ne occupa veramente sa che essa è davvero uno spregevole primato degli uomini, ma che le principali vittime non ne sono le donne, bensì gli altri uomini. Quantitativamente, c’è più violenza sugli uomini che sulle donne, e comunque entrambi i sessi la subiscono. Ciò in cui si distinguono davvero in modo netto gli uomini dalle donne non è affatto il ruolo di vittime della violenza fisica, in cui entrambi sono ben rappresentati, ma il ruolo di autori della violenza: la praticano molto più gli uomini che le donne, e la praticano più sugli altri uomini che sulle donne. Ad esempio, oltre al femminicidio gli uomini praticano anche il maschicidio, che purtroppo non è diverso, ma solo molto più frequente, benché la parola non circoli (in Italia ci sono circa tre uccisioni di uomini per ogni uccisione di donna[2]). La categoria più rilevante nella realtà non è dunque quella di “violenza sulle donne”, ma quella di “violenza degli uomini”. Questa è quella che, fuori di ogni approccio ideologico, meriterebbe maggiormente di diventare un concetto ad hoc.

Se si vuole affrontare un fenomeno occorre prima di tutto capire che cosa è. Pensare che il fenomeno da combattere sia soprattutto la violenza subita dalle donne impedisce di capire che invece il fenomeno maggiormente da combattere è la violenza praticata dagli uomini, che non privilegia affatto come vittime le donne. Questo proprio nell’interesse delle vittime di violenza, e quindi anche delle donne.

Beninteso, le donne soffrono nella nostra civiltà molte forme di discriminazione e di ingiustizia; e queste sono il quadro antropologico entro cui si colloca qualunque violenza che un uomo faccia a una donna. Ma – a meno di destituire le parole del loro significato per confondere tutto in un unico calderone di contrapposizione fra maschio e femmina – la violenza ha sue caratteristiche specifiche all’interno del più vasto campo delle ingiustizie. E per quanto riguarda la violenza, la nostra civiltà non deve fingere che il problema sia come fare per rendere gli uomini meno violenti verso le donne: deve capire che il problema è come fare per rendere gli uomini meno violenti. Le ragioni per cui invece ci si concentra su un pezzetto del problema, finendo per non capirlo bene, sono molte e non le possiamo affrontare qui: ne fanno parte il desiderio dei media di servire al pubblico ciò che più lo impressiona, forme di femminismo che ritengono di tutelare la donna considerandola più importante o soggetto di maggiori diritti dell’uomo, forse anche la convenienza di non fare una vera, seria guerra alla violenza nel suo insieme, come componente del vivere aggregato.

Ciò che invece porta legittimamente a vedere una specificità della violenza degli uomini sulle donne è quanto avviene in uno specifico contesto: il rapporto o la convivenza di coppia. Questo sembra un concetto ben delimitato nella realtà: la violenza che avviene nella coppia. E in tale contesto, se c’è sopraffazione fisica, è quasi sempre dell’uomo sulla donna; ma che gli uomini preferiscano sopraffare le donne invece che altri uomini è completamente da dimostrare: certamente, poiché la coppia eterosessuale è di gran lunga la più frequente, e in essa il più forte fisicamente è l’uomo, la violenza fisica nella coppia colpisce soprattutto la donna. Per di più, questa violenza del membro maschio sul membro femmina di una coppia si inserisce spesso (ma non sempre) nell’odiosa mentalità secondo cui la donna sarebbe una sorta di proprietà dell’uomo. Tuttavia, se parliamo proprio di omicidi, nella coppia i due sessi sono quasi in equilibrio.[3] E nelle convivenze di individui di un solo sesso la violenza non manca (un esempio per tutti: le carceri), sia fra uomini che fra donne.

Parlando, all’interno della violenza fisica, specificamente di violenza sessuale, è probabile che il tipo di stupro più frequente sia quello di maschi su maschi, che si commette continuamente nelle case di reclusione. Comunque, fuori dalla costrizione delle carceri, quello delle violenze sessuali e degli stupri è davvero un problema di violenza sulle donne da parte degli uomini, anche se ha un’incidenza molto minore rispetto alla violenza in senso più generale che si sprigiona ogni giorno nelle convivenze di coppia e familiari. Ma la violenza sessuale (molestie, stupri) ha modi e cause non identici alla violenza fisica non sessuale (maltrattamenti, percosse, uccisioni); ed ha anche destinatari diversi, perché la prima si rivolge a chi è oggetto di desiderio sessuale, mentre la seconda si rivolge indiscriminatamente a chiunque.[4] Usare la stessa espressione, violenza sulle donne, o anche violenza di genere, per queste due cose diverse produce incomprensione, niente affatto comprensione del problema.

Esprimersi come se la violenza sessuale e la brutalità non sessuale fossero la stessa cosa quando sono subite dalle donne, consente di attribuire entrambi i fenomeni a una specifica ostilità degli uomini contro le donne. Invece è giusto rendersi conto che la violenza sessuale degli uomini sulle donne somiglia piuttosto alla violenza sessuale degli uomini sugli uomini; e che la brutalità genericainflitta dagli uomini alle donne somiglia alla brutalità generica inflitta dagli uomini agli uomini. In questo modo si evita di estendere oltre i suoi veri confini l’immagine di una inimicizia degli uomini in quanto tali per le donne in quanto tali. È vero che alcuni comparti del nostro sistema sociale tuttora favoriscono gli uomini sulle donne, ma questo non significa che il sentimento dei singoli uomini sia sempre un sentimento di inimicizia per le donne; non più di quanto avvenga da parte delle donne verso gli uomini, e comunque ben al di sotto di ciò che un femminismo di pura ostilità sta cercando di far credere a tutti. Inutile dire che agitare una immagine – del tutto falsa, e spettacolaristica quando non pesantemente ideologica – dell’uomo come nemico naturale della donna non migliora i rapporti fra i generi, e anzi li peggiora molto, in qualsiasi civiltà.

Tuttavia, la violenza fisica non è l’unica forma di violenza, e anche gli studi più inclini a enfatizzare la violenza sulle donne (si veda l’ampio rapporto ISTAT del 2006 sull’argomento, voluto dal Ministero per le Pari Opportunità[5]) introducono giustamente nel questionario molte più domande sulle varie forme di violenza psicologica, che sono assai più frequenti, e costituiscono sempre il contorno e spesso la causa della violenza fisica, quando c’è. L’indagine ISTAT appena citata si è occupata esclusivamente della violenza sulle donne, cioè ha intervistato solo donne (25.000), chiedendo loro se avevano subito forme di violenza dai loro partner maschi; e ha completamente ignorato il fenomeno inverso: probabilmente l’ISTAT, e il governo che gli ha commissionato la ricerca, erano fortemente influenzati dalla stessa mentalità che ha prodotto la nostra polirematica violenza sulle donne: l’espressione linguistica genera la credenza che solo quello sia il problema.

Cosicché ora sappiamo “tutto”[6] delle violenze perpetrate nella coppia dal maschio, e niente di quelle perpetrate dalla femmina; o meglio, di queste ultime non sapremmo niente se Pasquale Macrì e collaboratori non si fossero incaricati di svolgere un’inchiesta uguale a quella dell’ISTAT ma con soggetti maschili, rivelando che – come forse era prevedibile – nella (e intorno alla) coppia le femmine praticano al pari dei maschi tutte le forme di violenza psicologica (crudeltà mentale, ricatti e minacce, stalking, ecc.), ma più raramente forme di violenza fisica; e che di solito sul piano fisico le donne hanno molta più probabilità di subire danni.[7]

Nella coppia, la violenza in generale è simmetrica. Straus e Gelles in uno studio molto noto, lavorando su un campione di coppie sposate americane, hanno rilevato che nel 27% dei casi era il maschio a commettere la prima violenza, nel 24% la femmina, e nei rimanenti casi la violenza era reciproca.[8] Invece è asimmetrico l’esito dello scontro fisico; il che può indurre gli uomini a cercarlo, e le donne a evitarlo. Tuttavia Martin S. Fiebert, del Department of Psychologydell’Università della California, rendendo conto di 286 ricerche accademiche sugli abusi matrimoniali, conclude che nelle relazioni di coppia non le conseguenze, ma il ricorso alla violenza fisica da parte femminile è equiparabile se non superiore a quello da parte maschile:[9]

women are as physically aggressive or more aggressive than men in their relationships with their spouses or male partners 

(le donne sono fisicamente aggressive quanto o più degli uomini nelle loro relazioni verso i coniugi o compagni maschi)

Secondo Fiebert, fra gli specialisti vi è consenso sul fatto che le donne siano attive quanto gli uomini nell’aggredire fisicamente il proprio partner, ma che al tempo stesso abbiano più probabilità di essere ferite.[10]

È chiaro che immaginare la violenza fisica contro le donne nell’ambito della coppia come qualcosa che nasca solo da una tendenza specifica dei maschi a sopraffare selettivamente le femmine in quanto femmine (e non in generale da una tendenza dei partner a sopraffare i partner) non permetterà mai di affrontare il problema in maniera efficace. In particolare, forse le espressioni femminicidio violenza sulle donne sono spesso usate in modo fuorviante, perché indirizzano gli sforzi verso una parte sicuramente reale ma troppo arbitrariamente individuata del problema, e soprattutto tendono a mettere in ombra il resto: in realtà, i concetti con un correlato significativo nei fatti, che potrebbero guidare gli interventi di natura educativa e legislativa, non dovrebbero essere (o almeno non solo) quelli di “femminicidio” e “violenza sulle donne”, ma quelli di “violenza del maschio” (su entrambi i generi), “violenza sessuale” (quasi solo da parte di maschi su femmine) e “violenza nella coppia” (reciproca), insieme a quello di “prevalenza fisica del più forte”. Quest’ultimo descrive anche la violenza sui bambini, che non è praticata dagli uomini significativamente più che dalle donne. Complice sicuramente la maggiore presenza delle donne presso i figli, secondo uno studio del Dipartimento Statunitense della Salute pubblicato nel dicembre 2013, il maltrattamento sui bambini è perpetrato nel 53.5% dei casi da donne, e l’infanticidio in percentuali simili. 

[1] Lawrence Barsalou, Cognitive psychology: An overview for cognitive scientists. Lawrence Erlbaum Associates, 1992. ISBN978-0898599664. 

[2] In Italia vengono uccisi ogni anno 16 uomini per milione, e vengono uccisi più di 3 uomini per ogni donna uccisa. Sia uomini che donne uccidono in prevalenza uomini: le donne assassine uccidono nel 39% dei casi donne e nel 61% dei casi uomini. Gli uomini assassini uccidono nel 31% dei casi donne e nel 69% dei casi uomini. (Ministero dell’Interno, Rapporto sulla Criminalità, “Gli omicidi volontari”, Tabella IV.18, “Genere della vittima secondo il genere dell’autore di omicidio commesso in Italia tra il 2004 e il 2006”). 

[3] Per quanto concerne gli omicidi in famiglia, negli USA nel 2005 gli uomini erano il 42% delle vittime, mentre in Italia nel 2007 erano il 40,4%, e nel Sud il 51,7% (EURES 2010: L’omicidio volontario in Italia. Rapporto Eures-Ansa 2009; citato in http://it.avoiceformen.com/diritti-umani/emergenza-maschicidi-servono-piu-servizi-antiviolenza-per-gli-uomini/). 

[4] Le due violenze possono anche essere praticate nella stessa situazione, ma questo non ne fa la stessa cosa. 

[5] http://www.istat.it/it/archivio/34552. 

[6] Ma si vedano i gravissimi difetti “sensazionalistici” che inficiano quell’indagine, come esposto chiaramente qui: http://www.pensierocritico.eu/manipolazioni-statistiche.html, e qui: http://www.uominibeta.org/articoli/listat-e-le-sue-metodologie-nelle-indagini-di-genere/. In queste analisi si vede che il noto risultato di 7 milioni di donne che in Italia avrebbero subito violenze è ottenuto mediante un questionario che – all’insaputa dell’intervistata – permette di contare come “violenza” anche un commento sfavorevole sull’abbigliamento o le capacità culinarie del partner. Le analisi dimostrano anche che negli ultimi dieci anni in Europa le violenze da parte di uomini sulle donne sono sensibilmente diminuite, mentre ad aumentare sono stati gli articoli giornalistici che ne parlano. 

[7] Pasquale Giuseppe Macrì, Yasmin Abo Loha, Giorgio Gallino, Santiago Gascò, Claudio Manzari, Vincenzo Mastriani, Fabio Nestola, Sara Pezzuolo, Giacomo Rotoli, Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile, in “Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza”, Vol. VI – N. 3 – Settembre-Dicembre 2012, reperibile qui: http://www.vittimologia.it/rivista/articolo_macri_et_al_2012-03.pdf. Gli autori sottolineano che i loro risultati vanno interpretati come inferiori al dato reale, e comunque inferiori a quelli che si ottengono sottoponendo lo stesso questionario in forma anonima alle donne, per via della “difficoltà ad emergere delle vittime maschili” e di una “diffusa resistenza a riconoscersi nello status di vittima, in particolar modo per mano di una donna”. 

[8] Murray Straus, Richard J. Gelles, Physical Violence in American Families: Risk Factors and Adaptations to Violence in 8,145 Families. Routledge, 1989. 

[9] Martin S. Fiebert, References examining assaults by women on their spouses or male partners:an annotated bibliography: http://web.csulb.edu/~mfiebert/assault.htm. 

[10] “[…] Consensus in the field is that women are as likely as men to strike their partner but that—as expected—women are more likely to be injured than men.” (http://www.csulb.edu/~mfiebert/latimes.htm).


“Il femminicidio non è un omicidio come gli altri”

di Barbara Bonomi Romagnoli e Lorenzo Gasparrini

La lingua, si sa, batte dove il dente duole. E, più di noi, dovrebbe saperlo un linguista. Si fa molta fatica, ad esempio, a inserire nuove parole nel lessico comune quando fanno riferimento ad un universo culturale e sociale intriso di stereotipi e modelli di riferimento allergici al cambiamento.

Il termine femminicidio, così tanto osteggiato per anni e finalmente in uso anche nei media mainstream, non significa semplicemente come ritiene il professor Edoardo Lombardi Vallauri “uccisione di femmina da parte di maschio” ma l’uccisione di una donna in quanto donna, magari perché rivendica spazi di autonomia e autodeterminazione e non certo perché è investita casualmente da un pirata della strada. Non è un omicidio come gli altri, femminicidio indica espressamente il movente, e non il fatto in sé. Non si possono mettere sullo stesso piano i numeri degli uomini ammazzati per motivi vari – e mai perché “uomini in quanto uomini” – con i numeri che riguardano i femminicidi, tanto più se la “violenza sulle donne” la si considera, dal punto di vista tecnico linguistico, un’espressione ad hoc.

Così come “violenza sulle donne” non è solo “violenza sulle donne da parte di uomini” ma è la più estesa violenza maschile che indica tutta una serie di forme e livelli di violenza che si esprimono attraverso comportamenti e stereotipi di genere, ruoli sociali, discriminazioni, ineguaglianze e soprusi che le donne, tutte, possono subire, a volte anche da altre donne pregne di cultura maschilista.

Per cui sì, gli uomini c’entrano, ma non perché subiscono più violenze generiche, ma perché sono gli agenti principali della violenza e soprattutto i responsabili della millenaria cultura sessista in cui cresciamo, tutte e tutti.

Sono solo due esempi per rispondere ad un ragionamento che rischia a nostro parere di non ancorare le parole alla realtà. Lombardi Vallauri ad un certo punto asserisce: “se parliamo di violenza fisica, chi se ne occupa veramente sa che essa è davvero uno spregevole primato degli uomini, ma che le principali vittime non ne sono le donne, bensì gli altri uomini”. E più avanti sostiene che la violenza maschile sulle donne sia solo “un pezzetto del problema”.

Non sappiamo a chi si riferisca Lombardi Vallauri, ma le operatrici che conosciamo noi e che da anni, decenni, si occupano di violenza maschile sulle donne ci dicono che il problema non è un ‘pezzetto’ e che, in un paese come l’Italia, i costi sociali della violenza maschile sulle donne equivalgono ad una manovra finanziaria. Non solo, normative internazionali come la Convenzione di Istanbul, hanno chiarito che “la violenza contro le donne” è anche violenza dei diritti umani e colpisce le donne in modo sproporzionato. In più, come due secoli di femminismi hanno ampiamente dimostrato, quella generica violenza che fa tanto male anche agli uomini è un prodotto della competitiva mentalità virile, così cara alla cultura maschilista che ancora la sostiene.

La competenza in questioni di genere si acquista, come tutte le altre competenze, con lo studio, l’impegno e lavoro sul campo – e anche molto lavoro su di sé. Lombardi Vallauri ha interpretato erroneamente il significato di parole importanti usate da chi si occupa di violenza maschile sulle donne ed è incorso in una fonte molto discutibile: lo studio infatti che cita per sostenere la ‘simmetria’ della violenza di genere è lo pseudostudio di Macrì notoriamente sconfessato, vicenda che chiunque si occupi di violenza di genere in Italia conosce come proverbiale di certa retorica maschilista travestita da scienza.

A voler fare una disamina linguistica sulla violenza, dovremmo forse iniziare ad usare in tutte le scuole e università di ordine e grado il linguaggio sessuato, magari così potremmo iniziare a sgomberare il campo da quella forma di violenza così sottile ed evanescente, eppure così intensa e persistente, che si posa sui corpi attraverso le parole.


Non distinguere fra ‘violenza tra partner nella coppia’ e ‘violenza dovuta a mentalità patriarcale e maschilista’ significa fare di ogni erba un fascio

di Edoardo Lombardi Vallauri

Ringrazio Barbara Bonomi Romagnoli e Lorenzo Gasparrini (BBR e LG) per aver voluto alimentare la discussione su questo tema così importante.

Certamente alcuni malintesi sono dovuti a scarsa chiarezza del mio scritto. Dunque me ne scuso e chiarisco. Sarò forse un po’ ripetitivo, e anche di ciò mi scuso, ma credo meglio stavolta eccedere in questa direzione, visto che formulazioni più sommarie hanno dimostrato di non essere facili da intendere, in presenza di modi di vedere molto radicati.

In apertura dell’articolo del 26 febbraio avrei dovuto essere più esplicito sul significato corrente di femminicidio violenza sulle donne, nonostante che i termini circolino già da tempo con il valore generalmente noto che ribadiscono anche BBr e LG; ed è quindi mia la responsabilità di avere consentito interpretazioni di stampo naïf. Scrivendo che femminicidio significa “uccisione di femmina da parte di maschio” intendevo esattamente lo stesso che intendono loro, cioè “uccisione di femmina in quanto femmina da parte di maschio in quanto maschio”, non semplicisticamente uccisione in cui i sessi sono quelli per caso. Lo stesso vale per violenza sulle donne.

Ripeto, mi rendo conto che avrei fatto meglio a essere più esplicito. Chiunque può però verificare che tutto il resto dell’argomentazione si basa su questo valore dei termini, mentre ben poco di essa sarebbe comprensibile se si basasse sull’interpretazione ingenua che BBR e LG mi attribuiscono.1 E comunque, certo la tesi centrale dell’articolo non sarebbe più quella su cui gli stessi BBE e LG mostrano poi di non essere d’accordo. Che senso avrebbero obiezioni come quelle che sollevano, se davvero per loro la mia tesi fosse che, quando un uomo fa violenza a una donna, non sempre si è trattato davvero di un uomo e di una donna? Ma per fortuna anche loro subito dopo capiscono – tanto da dissentirne espressamente – che io sostengo e deploro che si usino questi termini anche quando non si tratta di ciò cui dovrebbero riferirsi, cioè violenza specificamente di genere quanto al movente (per usare la loro felice formulazione).

In ogni modo, per venire alla sostanza, l’articolo conviene che tali espressioni sono giustificate nei casi che descrive così: “questa violenza del membro maschio sul membro femmina di una coppia si inserisce spesso (ma non sempre) nell’odiosa mentalità secondo cui la donna sarebbe una sorta di proprietà dell’uomo”. L’articolo sostiene anche, però, che purtroppo quelle espressioni sono spesso adoperate in modo fuorviante: proprio perché dovrebbero significare “violenza del maschio in quanto maschio sulla femmina in quanto femmina”, ma vengono usate in moltissimi casi in cui la violenza è semplicemente conflitto fra partner.

Ho cercato di attirare l’attenzione sul fatto che – oltre ad altri tipi di violenza trattati introduttivamente per inquadrare più estesamente la questione – anche quella fra i partner nella coppia non è necessariamente “violenza sulle donne” (sempre e proprio intendendo l’espressione nel senso che gentilmente ci ricordano BBR e LG), ma spesso è invece solo violenza di un partner maschio sul partner femmina, e quindi chiamarla “violenza sulle donne” è fuorviante, perché porta a credere che sia perpetrata da maschi perché maschilisti su donne oppresse in quanto donne; mentre invece spesso è praticata solo da partner oggettivamente maschi su partner oggettivamente femmine.

Appunto nell’accezione ristretta di cui sono ben consapevoli BBR e LG, l’articolo sostiene che la “violenza sulle donne” è un “pezzetto” della violenza totale: non per sostenere in maniera demenziale che la violenza sulle donne in quanto donne sia poco importante, ma per sostenere che la violenza totale, e in particolare buona parte di quella oggettivamente compiuta da maschi e oggettivamente subita da donne, è assai più estesa della violenza specificamente maschilista, e che trattare un esteso insieme contenente fenomeni fra loro diversi come se fosse tutto della natura di un suo pezzo, è un errore. Vedremo nuovamente tra poco che genere di errore.

In questo quadro è stato utile ricordare qualcosa che oggi passa troppo spesso sotto colpevole silenzio, e cioè che nella coppia praticano varie forme di violenza anche le donne. Questo elemento è dimostrato abbondantemente dai numerosi studi che cito, indipendentemente dal loro essere accettati in toto da tutti per quanto riguarda ogni altro dettaglio. Mi stupirebbe che BBR e LG volessero metterlo in dubbio.2

Purtroppo a molti sfugge la distinzione fra “violenza tra partner nella coppia” e “violenza dovuta a mentalità patriarcale e maschilista”. Si fa tendenziosamente di ogni erba un fascio. Termini come femminicidio e violenza sulle donne, che dovrebbero significare solo quello che ci ricordano anche BBR e LG, vengono invece usati continuamente per riferirsi alla violenza nella coppia, anche quando non è affatto dovuta a mentalità maschilista o patriarcale.3

Questo è ancora più grave quando, come ho ricordato, in un unico calderone si inglobano sotto l’etichetta di “violenza” anche forme di modesta conflittualità.4 E soprattutto, non accorgendosi che molta della violenza e conflittualità nella coppia non ha alcuna specificità di genere, si contribuisce ad avvalorare l’idea che ogni episodio di violenza o addirittura ogni conflitto fra partner sia un episodio di violenza di genere, ossia di applicazione di una mentalità patriarcale. Cioè, che sia l’imposizione, da parte del maschio, di una ideologia di sopraffazione della femmina. Un malinteso gravissimo, perché assegna il torto a priori, annullando il ruolo e la responsabilità personali, e considerando colpevoli gli appartenenti a una categoria in quanto tali. Una cosa che dovrebbe dare i brividi a chi ricorda un po’ di storia.

  1. Ad esempio, in quale altro modo interpretare frasi come la seguente, riferita appunto all’uso indiscriminato dei termini in questione? “Immaginare la violenza fisica contro le donne nell’ambito della coppia come qualcosa che nasca solo da una tendenza specifica dei maschi a sopraffare selettivamente le femmine in quanto femmine (e non in generale da una tendenza dei partner a sopraffare i partner) non permetterà mai di affrontare il problema in maniera efficace”. ↩︎
  2. Certo a mettere in dubbio quanto attestato dai diversi studi internazionali a cui faccio riferimento, e cioè che esiste anche violenza femminile, non basta che in sbrigativi interventi piuttosto di parte si avanzino dubbi sulla piena affidabilità di tutti gli aspetti dell’articolo di Macrì e colleghi (ad esempio sulle proporzioni esatte dei vari fenomeni; vada appunto il lettore a verificare da chi, in che misura e con che grado di cogenza quel lavoro sarebbe stato “notoriamente sconfessato”, secondo quanto assumono BBR e LG): dubbi altrettanto seri si esprimono sull’opposta indagine ISTAT del 2006, e un po’ su tutto, ovviamente. Né certo è procedimento più affidabile costruire le proprie opinioni su entrambi i lati della questione dai pareri informali – e parziali per definizione – di quelle che gli stessi BBR e LG definiscono come “le operatrici che conosciamo noi e che da anni, decenni, si occupano di violenza maschile sulle donne” (corsivo mio). ↩︎
  3. Il fatto che il maschio prevalga fisicamente è dovuto alla sua maggiore forza fisica, forza che comunque i maschi esercitano molto più contro gli altri maschi che contro le donne; come mi è parso utile ricordare perché chiarisce quanto sia parziale e in ultima analisi falsa la visione purtroppo molto diffusa e dannosa – oltre che alla verità – alla concordia fra i sessi, secondo cui la violenza dei maschi sarebbe indirizzata essenzialmente contro le donne. O che le donne subiscano violenza solo dagli uomini. Non ne ho parlato nell’articolo, ma naturalmente questa favola è sfatata anche dalla violenza che si sprigiona nelle convivenze di persone dello stesso sesso: http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/1363460716681491http://www.bbc.com/news/magazine-29994648. ↩︎
  4. Non mi riferisco oziosamente alle chiacchiere di qualche esagitat*. La tendenza a includere sotto l’etichetta dal sapore atroce di “femminicidio” anche moltissimi comportamenti minori (di cui oltre tutto esiste lo speculare da parte delle donne contro gli uomini, benché non si brandisca con pari aggressività il termine maschicidio), e quindi a comprendervi qualsiasi forma e grado di ostilità di un maschio nei confronti di una femmina, affiora anche in testi di valore e perfino belli come – fra altri – questo articolo di Michela Murgia, che ora mi vedo spinto a criticare direttamente, perché altrimenti si continuerà a insinuare che non leggo quello che bisogna leggere. ↩︎

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