Approfittando che sono spesso associate a condanne un po’ troppo automatiche, alcune parole possono essere usate per creare capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause di un male e dai veri responsabili di un’ingiustizia.

Dopo la terribile uccisione di Saman Habbas da parte dei suoi familiari in nome dei valori tradizionali a cui non voleva sottomettersi, come in precedenti occasioni dello stesso tipo, diversi rappresentanti della cultura islamica hanno preso iniziative volte a smarcarsi. Facciamo solo un paio di significativi esempi.[1] Nadia Bouzekri, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha rilasciato un’intervista al Corriere della sera, uscita il 9 giugno 2021 con il titolo: L’Islam non c’entra. Nozze forzate illegali anche in Pakistan. In essa si incontrano frasi come questa:

“ripeto, la religione non c’entra e nemmeno la cultura: in Pakistan i matrimoni forzati sono illegali”.

Da questo assetto giuridico l’interessata vorrebbe che noi capissimo che in Pakistan non esiste una cultura (fortemente intrisa di religione) dei matrimoni forzati; mentre noi, suo malgrado, capiamo immediatamente che è il contrario. Dice anche, Bouzekri:

“Qui la religione non c’entra, siamo nell’ambito del femminicidio, molto diffuso anche in Italia”.

Femminicidio è un termine il cui uso viene spesso esteso facendo di ogni erba un fascio fra tutti i tipi di violenza subita da donne, compresi quelli in cui la donna è oggetto di aggressione non perché di sesso femminile, ma (altrettanto atrocemente e ingiustificatamente) perché convivente, partner o comunque ostacolo alla felicità del compagno, o fonte di una sofferenza che lui crede assurdamente di risolvere così. Molte delle violenze nella coppia non sono femminicidi, ma sopraffazione di un individuo fisicamente più debole da parte dell’individuo fisicamente più forte, nell’ambito di una conflittualità non necessariamente infiltrata da idee maschiliste. Lo stesso avviene per le violenze psicologiche, dove chi sia l’individuo più capace di torturare l’altro non dipende dal sesso, e infatti è con pari frequenza il maschio o la femmina. Oppure nel caso degli infanticidi, dove sia il padre che la madre sono fisicamente più forti del bambino.

Qui, però, nel caso di Saman Habbas e in tutti quelli simili, si tratta proprio di femminicidio; cioè di uccisione di una donna in quanto donna, in nome di idee sul ruolo rivestito dal suo sesso, a cui si ritiene che abbia il dovere di adeguarsi. Ma il trattarsi di femminicidio significa forse che la religione e la cultura della civiltà dove esso è perpetrato non c’entrino?

È utile riflettere sia su questo modo di pensare, sia su questo modo di comunicare. Bouzekri e la giornalista che l’ha assistita nel predisporre quell’intervista, Alessandra Arachi, mostrano di essere convinte che basti usare la parola femminicidio per dirigere altrove la ricerca del colpevole. Sono ormai abituate a una civiltà in cui parole come femminicidio e patriarcato scatenano automaticamente indignazione, condanna, risentimento e perfino odio nei confronti di qualcosa e di qualcuno di molto diverso dalla religione e dai suoi rappresentanti. Per la precisione, contro il genere maschile e i suoi rappresentanti: i maschi.

L’attivista femminista intersezionale Wissal Houbabi, nostro secondo esempio, in una acclamata intervista raccolta da Giansandro Merli per il Manifesto del 9-10 giugno 2021, dal titolo Wissal Houbabi: «Il problema non è l’islam e l’occidente non è la soluzione»(https://ilmanifesto.it/wissal-houbabi-il-problema-non-e-lislam-e-loccidente-non-e-la-soluzione/), dichiara:

“Quando un gruppo di terroristi uccide e rivendica con l’islam, tutti gli islamici diventano terroristi. Così anche per un femminicidio. Peccato che i femminicidi avvengano ogni tot giorni. La violenza maschile non è una caratteristica solo della comunità islamica. Se per ogni uomo bianco che ammazza una donna dovessi vedere tutti gli altri uomini bianchi con il volto di un femminicida non rilascerei questa intervista.”

Sante parole. Cui Houbabi aggiunge:

“Quando una minoranza, come una famiglia pakistana, compie azioni così atroci serve un’interpretazione intersezionale che restituisca uno sguardo complesso e complessivo sulla realtà. Bisogna sapersi districare tra propaganda razzista e invisibilità di un sistema patriarcale.

(…) Un’altra gabbia da nominare e decostruire. Il sistema patriarcale è una forma di pensiero strutturale.”

Cioè, secondo Houbabi, a causa della visibilità dell’islam e della invisibilità del patriarcato, tutti danno la colpa all’islam (che non ne ha) e non danno la colpa al patriarcato (che è il vero colpevole). Di nuovo una parola magica, che serve a indirizzare la colpa lontano dalla religione, verso un ormai collaudatissimo capro espiatorio. In realtà, tutti sono così abituati a dare colpe al “patriarcato” inteso come mera maschilità, che perfino citarlo in un ragionamento completamente sghembo, può funzionare per intercettare le responsabilità che sono di una religione e scaricarle sugli appartenenti a un sesso. Anzi, Houbabi sostiene che la madre di Saman, pur avendo agito allo stesso modo dei membri maschi della famiglia, in realtà può non essere colpevole come loro, perché:

“La cultura patriarcale ti può annullare completamente nella volontà.”

Cerchiamo di raccapezzarci in questo genere di “ragionamenti”. Se una famiglia islamica si coalizza per uccidere una ragazza, non significa che tutti gli islamici siano dei femminicidi. E se un uomo bianco uccide la sua compagna non significa che tutti i maschi bianchi siano dei femminicidi. Tuttavia, nella famiglia islamica che si è coalizzata, i maschi sono più colpevoli delle femmine. La colpa è del patriarcato, che per di più è una forma di pensiero strutturale, cioè non individuale ma sociale e collettiva. E se la colpa è del patriarcato, la colpa non è della religione o della cultura islamica.

Dobbiamo dedurne che il patriarcato è l’unico complesso assetto socioculturale a non avere cause culturali? Che esso è slegato dalla cultura dominante, e indipendente dalle religioni che per millenni hanno avuto un ruolo di primissimo piano nel determinare quella stessa cultura, e in particolare, all’interno di essa, la morale corrente? Il fatto che il femminicidio avvenga anche in Italia significa che la religione non c’entra con una mentalità di subordinazione della donna? Chiunque ci legga deciderà se deve dedurre questo, o se invece preferisce dedurre che nelle dichiarazioni di Bouzekri e Houbabi c’è qualche imprecisione.

Se del femminicidio non ha nessuna colpa la religione, a maggior ragione non ne possono avere colpa altri e minori fenomeni o correnti culturali. Tuttavia, le cose non possono non avere cause. Se si escludono le ragioni socioculturali, che cosa può causare il patriarcato? Non rimangono che le cause naturali. Ed ecco: la sempre più diffusa tentazione di pensare che, alla fine, tutti i maschi sono in qualche misura dei femminicidi, rientra dalla finestra. Anche quando viene, per decenza, ripudiata nelle dichiarazioni esplicite, ci viene inoculata implicitamente mediante l’insieme del discorso.

Ma per fortuna, a dispetto di molte visioni di femminismo radicale, le cose non stanno così. Il patriarcato non è una diretta conseguenza del genoma umano o in particolare del cromosoma Y, ma un prodotto culturale. Lo provano, fra l’altro, le civiltà non patriarcali (comprese quelle matriarcali), e i miliardi di maschi capaci di rispettare le donne quanto gli uomini. Certo, come ogni fatto culturale anche il patriarcato non parte da una tabula rasa  della natura, ma neanche ne è un riflesso automatico, in cui la cultura non imprima in modo decisivo il suo marchio. Ad esempio, il fatto che i maschi siano più robusti fisicamente è un’eccellente premessa naturale perché possano usare la prepotenza; ma non li obbliga affatto ad essere prepotenti. Lo saranno dunque molto di più in una civiltà che li incoraggi o addirittura li obblighi ad esserlo, e di meno in una civiltà più ragionevole. Del resto, la prospettiva che le cause del patriarcato siano interamente naturali è quasi apocalittica. Se è proprio la natura che ha fatto le donne giuste (ragionevoli e buone) e gli uomini sbagliati (prepotenti e cattivi), così come ha fatto le donne adatte alla gestazione e gli uomini alla fecondazione, allora è inutile cercare di cambiare le cose culturalmente: tanto vale accettare che l’esistenza è una guerra fra i due sessi, e che vinca il più forte.

Ma insomma, no, anche nel caso di Saman Habbas, il trattarsi di patriarcato e di femminicidio non assolve le religioni, anzi. Non è onesto cercare di scagionare le religioni dalle loro responsabilità con questi sgangherati effetti di scaricabarile. E non è onesto perché storicamente questo genere di responsabilità le religioni ce l’hanno eccome. Io non conosco profondamente l’islam, quindi non provo neanche a citare ovvietà triviali come gli harem, perché non posso confutare seriamente l’ipotesi che millenni di islam siano stati irrilevanti nel produrre una mentalità che subordina la donna. Ma conosco un’altra religione, il cristianesimo, quanto basta per dire che esso ha dato e continua a dare un formidabile contributo a questo tipo di mentalità.

Nel nostro occidente, una religione che ha sempre negato e continua accanitamente a negare alle persone di sesso femminile la possibilità (la dignità!) di ricoprire qualsiasi carica significativa nei propri organigrammi, ha responsabilità evidenti per l’esistere di una cultura di subordinazione della donna. Una religione che predica la monogamia sessuale e la colpevolezza di chi la infrange, è responsabile della mentalità che conduce al femminicidio, perché arma ideologicamente ogni partner del diritto di condannare l’altro se non rimane completamente fedele alle leggi monogame della coppia. Se a parere di una religione “Dio” destina addirittura all’inferno chi viene meno all’esclusiva e definitiva appartenenza sessuale al partner, chiaramente questo costituisce un formidabile invito a considerarlo spregevole, colpevole, meritevole di durissima punizione. E questo arma entrambi, compreso il più debole, della possibilità di condannare (come accade continuamente in tutte le coppie). Ma il più forte, lo arma anche dell’autorizzazione a “punire”.

[1] Chi volesse vederne un terzo, apparso su Il Riformista del 15 giugno 2021 e punteggiato da esplicite inesattezze addirittura sui dati concreti, può andare qui: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2960034570899118&id=100006778116561

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