Non ci occuperemo dell’opportunità o meno di usare questa parola al femminile, questione su cui si fa oggi parecchia polemica. Su questo diremo solo che per ministra l’impressione di avere a che fare con una parola poco italiana è impressione errata. Già in latino il femminile di minister era ministra, quindi dal punto di vista della presunta estraneità all’italiano la situazione di ministra è pari a quella di amica (lat. masch. amicus, femm. amica) o di lupa (lat. masch. lupus, femm. lupa). La sensazione di estraneità che alcuni provano non è dovuta alla collocazione della parola nella lingua, ma alla poca abitudine a usarla, per via della struttura della nostra civiltà, che negli ultimi secoli ha prodotto molti più ministri che ministre.

Ci occuperemo invece del senso della parola, e di quanto esso coincida con le realtà che designa.

In linguistica e in filosofia del linguaggio si distingue fra il significato estensionale (o denotazione)e il significato intensionale (o connotazione)di una parola o di un’espressione.[1] La denotazione è la cosa che l’espressione designa, mentre la connotazione sono le caratteristiche che l’espressione attribuisce alla cosa. Ad esempio, il vincitore di Austerlitz designa la stessa porzione di realtà designata da lo sconfitto di Waterloo: entrambe le espressioni denotano Napoleone Bonaparte, quindi potremmo essere tentati di dire che “hanno lo stesso senso”; ma qualcosa ci dice che questa affermazione sarebbe riduttiva, perché per altro verso “non hanno lo stesso senso”. In effetti, entrambe rimandano a Napoleone,ma attribuendogli diverse caratteristiche, cioè connotandolo come generale vincitore di una battaglia o come sconfitto in un’altra. Così, gli animali col cuore e gli animali con i reni denotano esattamente lo stesso insieme di viventi, ma connotandolo attraverso una caratteristica diversa.Questo fenomeno è pervasivo: nella stessa famiglia persone diverse possono denotare la stessa persona connotandola come “mio padre”, “mio marito”, “mio figlio”, “mio fratello” e così via. E perfino verbi come andare e venire possono riferirsi allo stesso movimento connotandolo come avvicinamento o allontanamento, a seconda dei punti di vista.

Un caso particolare e importante della divisione del significato in denotazione e connotazione è l’esistenza, in alcune parole, di una componente valutativa; per cui è possibile dire che, a parità di denotazione, parole diverse possono avere una connotazione positiva, neutra o negativa. Quindi folla e calca hanno la stessa denotazione, cioè sono adatte a denotare la stessa porzione di realtà, ma solo la seconda la connota negativamente. Quale che sia la natura di un assembramento nella realtà, io posso scegliere di connotarlo negativamente definendolo una calca.Lo stesso vale per minestra e sbobba, o per bambino e moccioso. Così accanito, testardo, ostinatocaparbioperseverante, denotano la stessa qualità ma si distribuiscono approssimativamente su una scala di connotazioni dalla più negativa alla più positiva. Lo stesso vale, in una certa misura, di taccagnogrettoavarorisparmiatore e parsimonioso, e di tante altre serie di aggettivi.

La connotazione, attraverso il fascio di proprietà che attribuisce all’ente designato, dirige l’interpretazione della parola su una certa porzione di realtà. Se dico “il primo papa santificato per effetto della televisione”, predicandone queste caratteristiche dirigo l’interpretazione su Karol Wojtyla. Posso dirigere l’interpretazione su di lui anche partendo da un fascio di proprietà diverse, ad esempio dicendo “chi ha voluto la ripubblicazione del Catechismo nel 1992”. Altri insiemi di caratteristiche, cioè altri significati intensionali o connotazioni, dirigono l’interpretazione su altre porzioni di realtà, cioè su altri significati estensionali o denotazioni: “il più grande saltatore con l’asta ucraino” individua Sergej Bubka, quindi ha lo stesso significato estensionale di “il vincitore del salto con l’asta alle Olimpiadi di Seoul”. E “la città natale di Alessandro Manzoni” ha diversa intensione ma uguale estensione di “Il capoluogo della Regione Lombardia”.

Ebbene, oggi ministro e ministra denotano i membri del governo che stanno a capo di ciascun dicastero. Cioè, si riferiscono a quella porzione di realtà. Ma attraverso che significato intensionale dirigono l’interpretazione su di essa?

Il latino minister, femm. ministra, significava ‘colui che svolge un compito in posizione di servizio, subalterna’; quindi ‘servo, assistente’. Deriva da minus, ‘meno’, e si oppone a magister, ‘maestro’, che deriva da magis, ‘più’. Insomma, il magister è colui che partecipa con ruolo di primo piano, il minister è colui che partecipa con ruolo di servizio.Già nell’antichità si sviluppa per minister il senso di ‘governante’, ma è chiaro che la parola dirige su questo denotato attraverso un fascio di proprietà che lo connotano come un servire, un essere al servizio della collettività. Il minister non è definito in quanto capo come il dominus ‘signore (della casa)’ o il dux ‘condottiero (dell’esercito)’, non sta sopra gli altri, ma ricopre il suo ruolo di responsabilità proprio perché questo va interpretato come un essere al servizio del bene comune. Il concetto è lo stesso che a partire da Gregorio I (nel 587) ha portato i papi di Roma a firmarsi Servus Servorum Dei, ‘servo dei servi di Dio’. In Guanciale d’erba, Natsume Sōseki dice che “le spalle di un ministro sostengono i piedi di milioni di cittadini”.

I significati delle parole possono cambiare. Ad esempio, pecunia, pecuniario sono termini che denotano denaro e ricchezze, ma che in origine si riferivano a quel tipo particolare di ricchezza, preminente nella civiltà arcaica indoeuropea che ha dato i natali a Roma, che era il pecus, cioè il bestiame: le pecore. La parola latina da cui deriva l’italiano delirare significava in origine ‘uscire dal solco’ (durante l’aratura), e quella da cui viene l’italiano arrivare significava ‘raggiungere la riva’ (con un’imbarcazione); e non ci sogneremmo di dire che è sbagliato usarle nei significati attuali.

Però ci si può domandare se la parola ministroministra abbia completamente cambiato il suo significato intensionale, oppure no. Se, come l’idea del bestiame nella parola pecunia, quella del solco arato in delirare e quella della riva del mare o del fiume in arrivare, l’idea di ‘essere al servizio della collettività’ sia perduta del tutto, oppure faccia ancora parte della definizione del ministro e della ministra. Matteo Salvini è al servizio della collettività? Maria Elena Boschi era al servizio del paese? Dal punto di vista denotativo, cioè della realtà designata, ci si può chiedere se le persone che in vari modi ottengono una poltrona così importante sono veramente al servizio degli altri, oppure sono al servizio di sé stessi, e strumentalizzano le mansioni che gli toccano, per fare l’interesse proprio e di pochi altri. Dal punto di vista del significato intensionale della parola, la domanda è se l’idea che le persone si fanno di un ministro o di una ministra sia ancora legata al concetto di servizio per la collettività, oppure se ormai tutti riconoscono che un ministro e una ministra sono i vincenti di una gara per accaparrarsi un potere da gestire senza spirito di servizio.

Probabilmente il termine ha cambiato del tutto significato anche nella coscienza dei parlanti. La ragione è che la storia è una lunga striscia continua di prove che i potenti servono soprattutto i propri interessi. Questo è solo un caso particolare del fatto che tutti seguono soprattutto i propri interessi. Ma il punto è che proprio coloro che occupano posti di grande responsabilità dovrebbero essere impediti dal farlo. Che il singolo cittadino persegua (nei limiti concessi dalla legge) i propri interessi è accettabile, perché è controbilanciato dal fatto che gli altri singoli seguono a loro volta i loro interessi. Invece il caso del potente è radicalmente diverso: se segue i propri interessi può fare dei danni enormi a tutti gli altri. I singoli giocano ad armi pari, il potente gioca con armi impari, cui non pone un limite la presenza di interessi contrapposti ai suoi. Quindi nel suo caso è indispensabile che sia davvero al servizio della collettività. Questo è il senso di chiamare minister, ‘servo’ un uomo potentissimo. E non dovrebbe andare perduto.

Ebbene, che cosa occorrerebbe perché i ministri e le ministre, o chi occupa ruoli simili, fossero davvero al servizio degli altri? Come dovrebbero essere loro, per resistere alla tentazione di approfittare del potere? E come dovrebbero essere gli altri, cioè gli amministrati, che con il voto, sia pure indirettamente, gli conferiscono il mandato ed il potere? Loro dovrebbero essere eroicamente onesti? Cristallinamente obbiettivi? Sarebbe bello, ma su questo la storia insegna abbondantemente che non si può contare. E allora, come dovrebbero essere gli altri, cioè gli elettori? Dovrebbero essere più bravi a sceglierli prima, e a controllarli poi. Cioè, più bravi a giudicare e a non farsi ingannare. Insomma, perché ministro significhi ancora ‘persona al servizio del bene comune’, gli elettori dovrebbero essere più istruiti. Questa è una via praticabile. Chi ha governato l’Italia negli ultimi 30 anni si è sforzato con successo di praticare la via opposta. Chissà perché.

[1] Sono quelli sulla cui distinzione il grande filosofo, logico e matematico tedesco Gottlob Frege (1848-1925) ha attirato l’attenzione chiamandoli rispettivamente Bedeutung e Sinn.

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