C’è un’espressione che ricorre nelle testimonianze delle donne che hanno subito violenza, e di cui può non essere facile capire il senso, perché origina da complessi condizionamenti sociali.
Di recente, reagendo alle obbiezioni come minimo semplicistiche di Beppe Grillo sulla non immediatissima denuncia del presunto stupro che si addebita al figlio Ciro e a tre suoi amici, una giovane donna (Eva Dal Canto) ha diffuso un video molto cliccato in cui racconta di avere subìto violenza (12 anni prima) e di non averla denunciata. Spiega la mancata denuncia di allora, e il modo diverso in cui si comporterebbe adesso, con queste parole:
Pensavo di essere ugualmente responsabile. Adesso so che io non ho più niente di cui vergognarmi
Il suo non è un caso isolato. Anzi, giustamente da molte parti si invoca questo fattore (insieme ad altri pure importanti) per chiarire che una denuncia ritardata non è indice di mancata violenza: insomma, la vittima di una violenza sessuale può perfino preferire di non denunciare affatto, e quindi può avere almeno bisogno di tempo per decidersi a farlo, anche perché può ritenersi responsabile, sentirsi in colpa e vergognarsi.
È agghiacciante che una persona possa sentirsi in colpa perché è stata stuprata. Ma occorre chiarire che purtroppo (fra poco vedremo il perché di questo avverbio) la responsabilità e la causa di un tale senso di colpa non stanno direttamente nel comportamento dello stupratore. Lo stupratore ha intera la responsabilità della violenza, che è certo assai peggiore, ma di cui non scriviamo qui perché è già tristemente chiara. Invece la responsabilità del senso di colpa ce l’hanno quelli che si sono sempre chiamati i benpensanti, cioè coloro che rappresentano il sesso come qualcosa di sporco, di sbagliato, di colpevole.
Infatti solo della violenza sessuale ci si vergogna e ci si sente in colpa: nessuno si sente in colpa perché gli hanno sparato, perché lo hanno ferito, perché lo hanno picchiato, perché gli hanno rubato qualcosa. Quindi non si tratta della vergogna per non essere stati bravi a evitare il danno, o per avere indotto in tentazione il malintenzionato con qualche deficit di vigilanza. È proprio di avere fatto sesso, che ci si vergogna e ci si sente in colpa. Il timore di rivelare che si è stati coinvolti nel far accadere del sesso è tale, che si teme di essere giudicati sporchi perfino quando si è stati costretti. E al punto da non essere sicuri di voler agire pubblicamente per ottenere giustizia.
Insomma, un motivo molto importante per cui chi subisce violenza sessuale ha difficoltà a far valere i propri diritti, è che tuttora ci si deve vergognare di avere fatto sesso. La vita sessuale delle persone è tuttora bersaglio di ridicolizzazione e discredito, che di fatto impongono di nasconderla come si devono nascondere i crimini e le peggiori umiliazioni. A poco servono le dichiarazioni esplicite che si è superata questa mentalità; anzi sono dannose, se nei fatti essa sopravvive. È importante che la nostra civiltà capisca questo, nonostante che l’abitudine a convivere con la disapprovazione del sesso la renda invisibile, agli occhi dei più, come l’aria che respiriamo: fintanto che non l’avremo tutti capito, chi subisce una violenza sessuale continuerà a subire una violenza doppia. La prima dal violento, la seconda dai benpensanti. La prima è una violenza fisica, e quindi anche psicologica. La seconda è ideologica, e di conseguenza anche psicologica ed esistenziale. La prima è incomparabilmente più intensa, e concentrata in momenti orrendi, il cui ricordo spesso rimane doloroso e devastante per lungo tempo; la seconda è meno intensa, ma asfissiante perché è in atto sempre e ovunque; e per la verità anche su tutte le persone che non subiscono quella del primo tipo.
Come è facile verificare, dello screditamento del sesso sono complici quasi tutti. Dai moralisti espliciti, a quelli che fanno una battuta vigliacchetta sulla libertà con cui vive una persona di conoscenza, ai genitori cui la figlia deve raccontare che esce con un’amica.[1] Al punto che poi a tutti sembra di non esserne colpevoli. Ma la cosa più odiosa è che alcune delle persone che più si adoperano a perpetuare lo screditamento del sesso si esibiscono proprio in prima fila come nemiche della violenza sulle donne. Si proclamano paladine della condizione femminile un sacco di persone che considerano qualsiasi associazione di una donna a un’allusione sessuale come una degradazione di quella donna. Persone per le quali rappresentare (ad esempio in una pubblicità) una donna come disponibile o desiderosa di sesso equivale a umiliarla e svilirla. Persone secondo cui la prostituzione è sempre degradazione della donna, anche se da lei liberamente scelta ed esercitata, perché il sesso fuori di un rapporto sentimentale svilisce e umilia anche se avviene senza costrizione o sfruttamento.
Queste persone opprimono le donne con la condanna del sesso separato dall’amore monogamo, che è un retaggio squisitamente religioso, e fingono di difendere le donne. Queste persone, rispetto ai vecchi benpensanti da parrocchia, hanno l’aggravante della modernità, perché un pensiero arcaico dovuto a ignoranza, per quanto dannoso, può essere soggettivamente poco colpevole, ma chi perpetua questa mentalità dopo avere letto Simone de Beauvoir non ha scuse. E hanno l’aggravante ancora peggiore dell’ipocrisia attiva, perché questa repressione ideologica viene ammantata con la bugia della difesa delle donne.
Ma soprattutto, ed è la ragione per cui è necessario parlarne, queste persone sono ormai, per la causa delle donne, molto più nocive dei vecchi benpensanti. Ai vecchi benpensanti è più facile oggi per una donna (specialmente se giovane e istruita) non dare più retta. Ma a coloro che si proclamano femminist♫ e paladin♫ della causa delle donne è più difficile non accodarsi. Ebbene, una parte purtroppo sempre più rumorosa di costoro ha ripreso a perpetuare l’idea che per una donna essere coinvolta in cose di sesso sia degradante, e specificamente che gli uomini siano nemici delle donne quando manifestano apertamente la voglia di coinvolgerle (non di forzarle) in cose di sesso. Ebbene, a costoro è assai più difficile per una donna (specialmente se giovane e istruita) non dare retta. E quindi, proprio quando sembrava che le donne (e tutti noi) si stessero liberando dei benpensanti del primo tipo, il moralismo profondo di molte persone, per non soccombere, ha trovato un nuovo travestimento, e la condanna del desiderio si camuffa da difesa delle donne. ♫ benpensant♫ del secondo tipo hanno raccolto il testimone di quell♫ del primo tipo, e quindi di nuovo, dopo una breve e solo parziale parentesi post-sessantottina, le donne sono bersaglio continuo di bugie secondo cui vedersi coinvolgere in cose di sesso sia vedersi sporcare e degradare.
Il fenomeno ha proporzioni. Molte di queste personalità neoperbeniste atteggiate a paladine della condizione femminile accattano una facile popolarità, di fatto ingannando e danneggiando le donne. È necessario cominciare ad accorgercene. Se ci si riuscirà, un giorno nessuna donna dovrà più vergognarsi di “esserci stata”: né volontariamente, né perché costretta.
[1] Proprio su questo tema, si veda (dell’autore dell’articolo) Ancora bigotti. Gli italiani e la morale sessuale, Einaudi 2020.
Articolo originariamente pubblicato su MicroMega